Alcuni pensieri sull’arte (quasi) perduta della lettura ad alta voce

Una delle esperienze contemporanee più terribili è quella di incappare in una situazione in cui un incapace, privo di talento e con voce monotona in andamento sinusoidale smorzato, s’improvvisa nella lettura ad alta voce di un brano, che sia prosa o letteratura, generando un istante infinito in cui si spera che il danno maggiore possa esser contenuto nell’annoiarsi a morte.

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Il soggetto di riferimento non ha sesso e neppure senso della misura, essendo privo d’ogni fardello riferito all’apprendimento in materia di dizione, recitazione, respirazione, espiazione delle colpe mediante qualunque forma di penitenza, ivi compresa l’autoflagellazione.

Ascoltare una lettura ad alta voce, per quanto sia preziosa, non è la stessa cosa che leggere ad alta voce e se entrambe richiedono molta attenzione, quando ben eseguite potrebbero diventare comunque buoni modi per imparare qualcosa sui ritmi del linguaggio, riconquistando la fisicità delle parole, che diventano respiro e mente, forse anche l’anima, della persona che sta leggendo.

Per leggere ad alta voce in pubblico occorrono cultura, sensibilità ed intelligenza e non già autoreferenzialità e ricerca di appagamento dell’Ego, come comunemente possono ritenere gli improvvisati che vedono in questa forma d’arte una semplice, immediata, sbrigativa occasione per mettersi in mostra.

Si legge con i polmoni e col diaframma, con la lingua e con le labbra, calandosi in una situazione assai diversa dal leggere soltanto con gli occhi, perché il linguaggio diventa parte del corpo, generando quasi sempre una curiosa tenerezza, anzi quasi una qualità erotica; beninteso a patto d’aver talento e d’esserne capaci.

Altrimenti si genera noia, si appare patetici e sentimentalmente analfabeti, impoverendo di fatto il brano su cui ci si è avventati, perché ad essere sbriciolate sono unicamente parole brutalmente distaccate dalla loro rappresentazione, smarrendo in modo pressoché irreparabile la voce interiore della prosa.

La vita di una lingua si trova ad essere così impoverita, pronta all’estinzione.

Leggere ad alta voce è un’arte, che ha profondi riflessi anche nella scrittura, perché quanto meno insegna a prendersi i giusti tempi e quando ben eseguita è di certo divertente con la sua magica capacità di rendere le storie ancor più reali, comprensibili, coinvolgenti.

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Una buona storia di narrativa letta ad alta voce genera emozione grazie al piacere sentir risuonare le parole dalla gola e sulla lingua.

Affinché questo avvenga, occorre imparare in modo che gli altri possano sentire, comprendere, apprezzare, senza esplodere duramente ed a tratti, parlando in modo chiaro e con dizione adeguata, senza borbottare o bofonchiare (e occorre eliminare quei difetti fastidiosi, come ad esempio il rotacismo delle consonanti vibranti; altrimenti è meglio astenersi del tutto).

Indispensabile essere consapevoli degli alti e bassi prodotti dalla voce, della sua “musicabilità”, identificando gli accenti e dando conto al desiderio di recitare, che nella sua intima essenza si identifica tanto con la gioia di leggere ad alta voce, quanto con la condivisione di un testo.

Ci sono persone capaci di affascinare dopo aver pronunciato quattro o cinque parole, perché il loro modo di porsi, il tono, il volume, il colore e il ritmo del loro eloquio possono esser paragonati alla composizione di una melodia ammaliatrice.

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Le doti naturali debbono esser comunque affinate dallo studio e dall’esercizio, perché non è affatto sufficiente esprimersi con proprietà di linguaggio per trasmettere esattamente i significati e le emozioni che si desiderano.

A quanti invece non riescono proprio ad approcciarsi con passione e sentimento, impossibilitati a coinvolgere ed emozionare al pari di un discorso spontaneo, a questi che difficilmente potranno davvero migliorare il loro modo di comunicare, è vivamente consigliato di desistere dal prodursi nella preziosa arte della lettura ad alta voce, giacché la noia provoca nocumento, grave.

(tratto da Claudio Braggio, ArtFanZine AL51 “Difendersi dall’arte”)