Il comandante Massoud è tornato a Parigi

Dopo venti anni dall’attentato che il 9 settembre del 2001  causo’ la morte dell’eroe afghano, il leggendario “Leone del Panshir”,  Parigi il 27 Marzo scorso gli ha reso un doveroso omaggio intitolandogli una stradina a pochi passi dal  Viale piu’ bello e piu’ significativo  di Francia, il Viale degli Champs Elysées.

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La manifestazione si e’ svolta a 20 anni esatti dalla visita che il Comandante Massud  fece in Francia per essere ricevuto a Strasburgo dal Parlamento Europeo, al quale rivolse un caloroso discorso per denunciare il pericolo per il mondo intero costituito  dall’estremismo religioso e le ingerenze pakistane nella perdurante crisi afghana. Purtroppo la sua denuncia e la richiesta anche di aiuti finanziari caddero nel vuoto. Solo dopo la sua morte, avvenuta due giorni prima del duplice attentato  dell’”11 settembre”  alle Torri Gemelle di New York, il mondo occidentale comprendera’ l’effettiva portata del pericolo costituito dal terrorismo islamico, dando il via alla missione internazionale “Enduring Freedom”, missione che pero’ non produrra’ i frutti sperati, proprio per non aver ascoltato il chiaro messaggio del Comandante Massud a proposito delle ingerenze straniere, soprattutto pakistane nella gestione della guerriglia dei “Talebani”.

Ma chi era il Comandante Massud e cosa ha rappresentato per il suo popolo?
Così ce lo descrive Fausto Biloslavo, reporter di guerra del Giornale: “Seduto per terra a gambe incrociate, con i piedi scalzi nonostante il freddo Ahmad Sha (Massud) sembrava un mujahed qualunque, con un fisico smilzo e un pizzetto di barba dannunziana. Quello che colpiva erano gli occhi di brace con i quali ti fissava ed il modo di parlare accompagnato a tratti, da un gesticolare messianico”.

Nato nel 1953 nel villaggio di  Djangalak, nella Valle cel Pandshir, nel Nord del paese da una famiglia sunnita di etnia tagika, Ahmad Sha Massud, studio’ a Kabul nel prestigioso Liceo Francese  “Istqlal” e poi al Politecnico cittadino; qui divenne  attivista nel movimento dei Giovani Mussulmani, fedeli seguaci del professor Burhaddin Rabbani, primo nucleo dell’opposizione all’influenza sovietica che iniziava a incombere sull’Afghanistan. Nel 1973, dopo il colpo di stato fomentato dal principe filosovietico Mohammed Daoud Khan,  convinto assertore della necessita’ di opporsi alle ingerenze straniere  nel proprio paese e di doverne  preservare l’identita’, sceglie di raggiungere la resistenza armata e la clandestinità.
Guidato dal sogno di vedere il proprio Paese libero, sovrano e indipendente, nel rispetto delle antiche tradizioni culturali e spirituali della sua terra, osservante mussulmano, ma alieno da ogni  fondamentalismo, diviene ben presto uno dei capi della guerriglia antisovietica piu’ amati, dando mostra non solo di coraggio personale, manche di notevoli capacita’ di comando  e strategiche. L’inviato speciale del Corriere della Sera  Ettore Mo, ricordando la prima delle tante interviste rilasciategli nel corso degli anni, scriveva: “Al tempo del nostro primo incontro, nell’81, l’ex studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era gia’ leggenda, che le epiche battaglie contro gli “sciuravi” – i russi – avrebbero via via ingigantito”.
Per comprendere bene quello che accadeva allora in quella sperduta parte del mondo, bisogna ricordare che siamo ancora al tempo della divisione del mondo in due blocchi contrapposti : le democrazie occidentali da una parte e il blocco comunista dall’altra, con l’URSS che tenta di espandere la sua influenza verso Ovest e verso Sud. Nella Kabul degli anni ’70 attorno al professor  Rabbani si raccoglie un nucleo formato soprattutto da studenti, legato alle proprie tradizioni  religiose e culturali, che percepisce la crescente influenza sovietica come una minaccia alla propria identita’ nazionale e cerca una alternativa ai governi fantoccio come quello di Mohammed  Daud Khan.  Nell’Aprile 1978 un nuovo colpo di stato abbatte il governo di Daud e instaura il regime filosovietico di  Taraki che sancira’ il definitivo passaggio dell’Afghanistan nell’ambito dell’influenza di Mosca. Il fronte antisovietico organizza la resistenza dalla base di Peshawar; Massud si ritira nel suo Panjshir, guidando una propria personale  resistenza contro l’invasore russo.  Arroccato tra le impervie montagne del Nord del paese, Massud e i suoi Mujaheddin conducono dal 1979 al 1989 una dura lotta contro le truppe sovietiche fino al loro ritiro definitivo.
E’ in quegli anni che nasce e si consolida la leggenda del “Leone del Panjshir” e dei suoi guerriglieri che, con l’appoggio della popolazione locale e sotto gli sguardi incuriositi dei media internazionali, stupiti dei loro notevoli risultati militari, sono capaci di resistere, per quanto improvvisati e senza mezzi, a ben dieci offensive dei sovietici.
Così, sempre Ettore Mo ci da’ una descrizione di questa difficile e impari lotta: ”Ricordo una escursione nel Panjshir, nell’estate del 1984, alla ricerca del leggendario Comandante Massud, che alcune notizie davano per prigioniero dei russi o addirittura per morto. [….] Lassu’ nel Panjshir, il grande comandante stava benone. Altro che prigioniero o ferito a morte. Neanche un graffio sul suo bel viso asciutto e affilato. Aveva appena respinto la settima offensiva nella vallata, che i sovietici avevano troppo incautamente battezzato “Addio Massud”. Cacciati i Russi da Kabul, sembra che il fronte guidato da Rabani, nel cui governo Massud assume l’incarico di Ministro della Difesa, possa garantire un futuro di pace e di tranquillo sviluppo. Ma e’ una breve illusione; ben presto, come non bastassero  le divisioni fra le varie etnie a rendere difficoltoso il consolidamento del nuovo stato afghano, una nuova minaccia si presenta all’orizzonte, quella dei talebani, i guerriglieri integralisti guidati dal mullah Omar, appoggiati dal vicino Pakistan e forse anche da altri attori internazionali contrari ad un Afghanistan indipendente e sovrano. La resistenza contro i guerriglieri dell’integralismo islamico e’ serrata, anche per il completo disinteresse delle potenze occidentali; nel 1996 Kabul cade nelle loro mani e viene instaurata la Repubblica Islamica Afghana, basata sulla rigida interpretazione ed applicazione del Corano ad ogni aspetto della vita civile.  Massud fugge da Kabul, non esita a denunciare ad alta voce la barbarie dei talebani e il sostegno che ricevono dal Pakistan. Ma le denunce non bastano. L’opinione pubblica occidentale, caduto il Muro di Berlino, non si preoccupa piu’ di questo lontano Paese e Massud comprende che e’ necessario tornare fra la sua gente e le sue montagne per riorganizzare la guerriglia contro i nuovi nemici. Nel 1996, a chi lo intervistava, dira’ “La mia e’ stata una ritirata strategica, come ce ne sono state tante nella storia. Ho messo in salvo i miei uomini e il mio arsenale. E ho evitato di esporre al massacro la popolazione locale. La vera sconfitta l’hanno subita loro – i talebani – perdendo l’appoggio popolare”.
Da allora Massud sara’ alla testa dell’Alleanza del Nord in funzione anti-talebana, conseguendo diversi successi militari che spiazzano le forze integraliste del mullah Omar. La situazione e’ comunque sempre difficile, perche’ mentre dal vicino Pakistan (e non solo)  gli integralisti ricevono appoggio politico ed aiuto economico, i mujaheddin di Massud stentano a portare avanti la loro lotta senza il rinforzo delle potenze occidentali, che continuano a mostrarsi quasi indifferenti alla situazione afghana e al pericolo che i talebani costituiscono per il mondo intero.
In questa ottica nasce venti anni fa (Aprile del 2001)  il viaggio in  Francia di Massud, di cui abbiamo parlato all’inizio, con l’intento appunto  di denunciare al mondo intero le oscure trame islamiste di Al Qaeda e l’ondata di terrorismo che di lì a poco si sarebbe abbattuta sul mondo intero, come riesce a fare nel suo discorso al Parlamento Europeo in Strasburgo (mentre non riesce a incontrare il Presidente Chirac, come avrebbe voluto).
Ma forse e’ gia’ tardi, l’Occidente rimane sordo,  le istituzioni europee non hanno alcun peso politico, ne’ militare e il 9 settembre dello stesso anno arriva la vendetta islamista: quarantotto ore prima dell’attacco terrorista all’America (quasi un segnale di guerra), due terroristi algerini di Al Qaeda uccidono il simbolo dell’indipendenza dell’Afghanistan, facendosi saltare in aria in un attentato suicida.
Venti anni dopo Parigi forse ha voluto con questo gesto, riparare all’indifferenza con cui tutto il mondo occidentale accolse allora l’appello di Massud e voglio sperare che il ricordo del comandante Massud spinga il mondo occidentale (gli Stati Uniti, la NATO, l’Unione Europea) a comprendere come la pacificazione dell’Afghanistan debba passare anche attraverso un netto taglio ai rapporti a dir poco ambigui di alcuni Paesi Arabi formalmente amici dell’Occidente, ma al contempo ispiratori e spesso finanziatori del terrorismo islamico ed attraverso il necessario coinvolgimento della Russia in questo processo.

Aldo Rovito

NOTA.

In Italia oltre a numerosi reportage giornalistici dell’epoca, tra i quali quelli di Ettore Mo sul Corriere della Sera e di Fausto Biloslavo sul Giornale, ci piace ricordare il brano musicale “Comandante Massud”  dedicato all’eroe afghano da  Skoll & Tour de Force e la traduzione italiana del fumetto francese “Masoud, il Leone del Panjshir” (testi di  Maryse e Jean François Charles Disegni a colori di Frederic Bihel), arricchito nell’edizione italiana da un saggio introduttivo di Federico Goglio e da foto dell’archivio personale di Fausto Biloslavo pubblicata nel 2017 dall’editrice Ferrogallico.

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Nella Foto: Parigi. Durante la cerimonia dell’intitolazione della via al Comandante Massud, il figlio del Comandante, Ahmed Massud, ringrazia le Autorita’ parigine, con queste parole: “Sono trascorsi  e’ atterrato in Francia su invito del Parlamento Europeo, e da qui egli ha lanciato la sua campagna contro il terrorismo internazionale e l’estremismo; voglio esprimere sincera gratitudine alla Sindaca Anne Hidalgo, al consiglio comunale, al mio amico Bernard Henri Levy, grazie ai quali tutto questo e’ stato possibile. E’ un onore per il popolo afghano, in particolare, per la mia famiglia, vedere il nostro eroe nazionale venire omaggiato 20 anni dopo il suo martirio..La lotta di mio padre era per tutta l’umanita’. Voleva giustizia e liberta’ per tutti, qualunque fossero l’origi ne e la religione”.(Ansa).

FONTI: Le Figaro 27.03.021; Corriere della sera, articoli vari a firma Ettore Mo; Fauto Biloslavo in www.faustobiloslavo.eu 3 ottobre 2021.