Un padre, un figlio e il Castello della Manta.
In questi giorni le TV locali e nazionali ci hanno parlato del FAI e delle visite guidate che hanno organizzato, organizzano, organizzeranno, in tanti luoghi artistici italiani, che spesso hanno contribuito a restaurare con passione e immensa dedizione. Sono stato, qualche anno fa, in uno di questi splendidi luoghi: il Castello della Manta, vicino a Saluzzo. Era Pasquetta, il FAI ha organizzato un piccolo pranzo “al sacco” nel parco del Castello, con una cifra tutto sommato modesta, che comprendeva anche la visita guidata al castello, che lo stesso FAI ha restaurato con egregi risultati. Il tutto ovviamente non a scopo di lucro, ma per raccogliere fondi, appunto, per procedere con i restauri, lì ed in tanti altri posti.
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Purtroppo, causa le fatidiche leggi di Murphy, la giornata era piuttosto fredda e ventosa e il pranzetto “al sacco” si trasformò in un pranzetto “al freddo”, con unica fonte di riscaldamento uno o due bicchieri di barbera…ma poi la visita al Castello fu davvero una splendida e memorabile esperienza, perché davvero questa dimora quattrocentesca è veramente particolare, direi unica. Lasciate che vi spieghi perché. E che consigli a tutti i miei lettori una visita in questo indimenticabile maniero.
Questo Castello è il frutto di un testamento. Quello che il 15 ottobre 1416 Tommaso III di Saluzzo fece per assicurare al figlio prediletto, anche se illegittimo, se non la continuità dinastica, impossibile per le regole dell’epoca, almeno un luogo di bellezza e protezione, imponente e stupendo passaporto per una vita degna e importante. E l’oggetto di tale benevolenza, il materializzarsi degli ideali estetici e cortesi che con la donazione dovevano trasferirsi da padre in figlio, è questo: il castello della Manta. Eccolo lì, stagliato con il Monviso sullo sfondo, a pochissimi chilometri da Saluzzo, questo luogo di grande bellezza.
Il padre era Tommaso III, signore di Saluzzo. Il figlio naturale di lui si chiamava Valerano, detto il Burdo. Lo sfondo, ovviamente, sono le terre saluzzesi. Tommaso III era un ingegno subalpino davvero di notevole caratura, ugualmente versato nelle cose politiche come nell’arte del poetare. Valerano, figlio illegittimo, lo aveva avuto in età adolescenziale, da una donna di non nobili origini e, come tale, pur se amatissima, impossibilitata a elevarsi al rango di moglie. Tali erano le regole dell’epoca.
Ed allora, quel testamento era il dono di un grande amore, da padre a figlio. Per capire quanto fosse meraviglioso questo dono, è bastato seguire la guida del FAI, addentrarsi nell’armonico succedersi di scale, saloni e loggiati: è come compiere un viaggio in un tempo lontano, all’ombra del grande amore di quel padre per quel figlio. Ma anche un amore fortemente ricambiato, come potremo scoprire nella visita!
E così, dopo aver attraversato una sala, con palese funzione di anticamera, si arriva, dopo un breve andito, davanti alla più folgorante delle rivelazioni: il salone baronale. È qui che la straordinaria unione spirituale di Tommaso III è di Valerano il Burdo diventa tangibile. Eh si, perchè ci troviamo davanti ad un grande salone affrescato in modo ricchissimo, fantastico, che non si smetterebbe mai di guardare, di analizzare dettaglio per dettaglio, particolare per particolare.
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Gli affreschi, oltre ad essere immensi e straordinariamente coinvolgenti, sono portatori di un incredibile, intricato gioco simbolico di messaggi, rimandi, sentenze, allusioni, che senti come irradiarsi da parete a parete, da affresco ad affresco. E pensare che neppure si sa bene chi abbia dipinto questa, anzi queste meraviglie, perché vi sono più mani distinte, nelle opere che possiamo ammirare. I tentativi di attribuzione da parte degli studiosi non hanno sortito finora esiti inoppugnabili. Forse l’avignonese Jacques Iverny? O il piemontese Jaquerio? O Aimone Duce, come lascerebbe intendere la scritta sul bavero della mantellina di uno dei personaggi rappresentati? Mistero.
E le incertezze e i dubbi non vengono meno quando si passa a sondare i significati simbolici di ciò che vediamo. Di fronte a noi una Fonte della Giovinezza. Di quale messaggio si fece carico Valerano, nell’ordinarne l’esecuzione? Non lo sappiamo. Possiamo guardare con ammirato stupore l’affollata scena, pullulante di episodi: il corteo grottesco dei vegliardi, l’immersione nella fontana, il recupero prodigioso della gioventù, ma che vuole raccontarci questa scena? Forse è un inno alla felicità terrena, oppure un criptico invito alla rigenerazione spirituale?
Ma se poi, perplessi, se pur sedotti dalla qualità dei dettagli, ci volgiamo alla parete di fronte, troviamo lo splendido omaggio che un figlio riconoscente ha voluto fare al generoso padre. Perché in questa parete è rappresentato, anche con la riproduzione di alcune pagine, oltre che di molte figure protagoniste di quell’opera (ormai assai poco conosciuta), che è stato quel poema, o romanzo in prosa e in versi, Le chevalier errant, che fu opera dello stesso Tommaso III, a cui volle ispirarsi Valerano commissionando il ciclo affrescato.
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Tutto il salone fa pensare all’interno di un codice metaforico ma prezioso, di cui anche tu che osservi ammirato ti senti divenuto parte, quasi trasformato nel Cavaliere Errante, in muto colloquio con le Eroine e i Prodi. E la guida ti accompagna in questa specie di favola concreta dipinta su un muro, facendoti osservare un Alessandro Magno dalle fattezze che hanno la maestà pensosa di Tommaso III di Saluzzo. E un Ettore di Troia con il fascino di Valerano. Ancora una volta si esprime quel grande amore tra un padre per un figlio, illegittimo, si, ma grandemente adorato!
C’è poi una piccola ma interessante situazione curiosa: presso la parete dove di trova la porta di ingresso del grande salone affrescato, che era sala di governo ma anche di ricevimenti, c’è una nicchia con una figura del Cristo…che ha la caratteristica di avere una specie di imposta…che veniva lasciata aperta durante le udienze o le discussioni politiche o religiose…ma veniva pudicamente chiusa durante i balli di corte!
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