La simpatia di Govi all’ombra del Castello: “Articolo Quinto” a Monastero Bormida.
Si era più o meno alla fine degli anni ’70. Allora non c’era la stragrande maggioranza dei giocattoli elettronici di oggi: non c’erano i computer, quindi non c’era internet e non c’erano gli smartphone. Chi la sera del venerdì non usciva, poteva fare tre cose: leggere, ascoltare musica, alla radio o magari con un impianto stereo, oppure guardare la TV, con la Rai che era diventava trina e le popolari TV private che stavano sorgendo. Fu così, guardando la TV in una sera d’inverno, un po’ svogliatamente, che mi trovai di fronte il volto incredibilmente espressivo e duttile di Gilberto Govi! Di cui non sapevo assolutamente nulla, confesso la mia ignoranza. E poi…il tetro dialettale? Mah? In genovese, poi? E chi lo capirebbe? Mah? Allora iniziai a guardarlo, mi pare di ricordare che fosse quel capolavoro che è I manezzi pe majâ na figgia (gli intrighi per maritare una figlia) di Niccolò Bacigalupo, per curiosità…e continuai a guardarlo per il gusto di farmi risate genuine e ripetute: ma che bravo questo Govi, che bello questo recitare in dialetto Zenese, che simpatico questo piccolo mondo antico che ormai non esiste più (la commedia è del 1923), quella piccola borghesia, così simile alla nostra, ma anche così tipicamente genovese, sulle cui vicissitudini la compagnia di Govi faceva ridere e sorridere, ma sempre con tanta, tantissima tenerezza.
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Ho poi comperato prima le VHS (sembra passato un secolo) e poi i DVD delle uniche sei commedie superstiti, registrate per la Rai, che forse non tutti sanno, sono state salvate dalla distruzione, prevista dalla stessa mamma Rai, con l’aiuto di molta fortuna, negli anni settanta, da un impiegato Rai, collezionista appassionato di teatro, e poi appunto proposte, quando le vidi io la prima volta, nel 1979, da Vito Molinari e Mauro Manciotti in Tutto Govi, su Rai 3. Ma gli spettacoli a suo tempo registrati non erano solamente sei, ma quattordici (qualcuno dice quindici) …però le altre commedie sono state mandate al macero dalla stessa Rai…incredibile ma vero. Di alcune, fra quella che ho visto, con mio grande piacere, a Monastero, sabato scorso, Articolo quinto, si è salvato unicamente l’audio. Capirete bene, quindi, che quando Patrizia Velardi, di quella Reteteatri che lo spettacolo l’ha messo in cartellone a Monastero Bormida, mi ha invitato, ne sono stato felicissimo.
Anche perché era a Monastero Bormida, appunto. Perché sono innamorato di Monastero, come credo di aver ben dimostrato in miei precedenti articoli, e andarci mi fa davvero un piacere immenso. Che poi il teatro di Monastero, non immenso ma molto ben strutturato e molto accogliente, è proprio lì, in fondo alla discesa pedonale in cima alla quale ci sono le antiche porte del castello. E, credetemi, arrivare a Monastero, parcheggiare proprio di fronte al teatro, scendere dall’auto e…rimanere lì, con il naso per aria, a godermi per qualche minuto la meravigliosa vista notturna del castello che però era un monastero, è qualcosa per me di impagabile, che mi regala lunghi attimi di meravigliata ammirazione.
E la commedia? Divertentissima. Articolo Quinto è una commedia in tre atti scritta da Ugo Palmerini, che comunque lo stesso Govi ha modificato ed adattato alle esigenze della sua straordinaria arte attoriale. In questo caso la propongono la Compagnia Teatro Don Bosco di Varazze con un grande Gianni Way, perfettamente nella parte che fu di Govi, di Tommaso Bardan, impiegato comunale, che si ritrova sposato con Camilla (la bravissima Margherita Alipede), due volte vedova, che ha una figlia di primo letto, Ofelia (Barbara Ponte), viziata, anzi viziatissima, non solo dalla mamma, ma anche dalla di lei sorella e convivente, Cecilia (Elvira Todeschi).
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Solo che in quella famiglia tutto si fa per Ofelia e nulla si fa per Tommaso, che si ritrova con i mutandoni di lana senza bottoni, le camicie ridotte a stracci e pranzi dozzinali, mentre Ofelia va ai balli cittadini, veste con sgargianti pigiami, mangia il cibo migliore. Il povero Tommaso entra in scena con pantaloni e bretelle…con sopra un corpetto a mezza manica che lo rende proprio il prototipo del marito frustrato e arrabbiato.
Ma la sorte giunge in aiuto a Tommaso, quando la cugina Gemma (Teresa Bolla) – che chiama Tommaso con quel bellissimo nome dialettale che anche noi abbiamo, “barba” – sposata con Giacinto, merciaio balbuziente e gelosissimo sia della moglie che della figlia Lina, probabilmente la macchietta più riuscita della commedia, strepitosamente interpretata da Alfredo Valle, gli chiede di affittare una camera al cugino Vittorio (Paolo Guido), di famiglia assai abbiente, segretamente innamorato di Lina (un personaggio che però non comparirà mai in scena), alla quale vorrebbe appunto stare il più vicino possibile. Tommaso s’inventa furbescamente che Vittorio sia molto interessato ala mano di Ofelia. Solo che Vittorio, caspita, è molto tradizionalista, crede nella famiglia tradizionale, dove il marito è davvero il “capofamiglia” e tutte le donne sono al suo servizio e ai suoi ordini.
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Le donne abboccano e ci credono, con profonda gioia di Tommaso, che infatti nel secondo atto troviamo ben vestito e ben servito, con sua immensa soddisfazione e scorno delle sorelle e della figliastra. Tra vari colpi di scena, equivoci e malintesi vari, fra cui i davvero esilaranti interventi del balbuziente Giacinto, gelosissimo, che riceve quasi tutti i giorni da qualche burlone che bene conosce questo suo esasperato atteggiamento, una cartolina con pesanti insinuazioni sulla fedeltà della moglie, la vicenda ha strappato a tutti noi un sacco di sorrisi ed un sacco di risate. E che bello sentirla recitare nello splendido dialetto genovese, quel dialetto di quella straordinaria città che è Genova, con la quale abbiamo, come dice Paolo Conte in “Genova per noi”, un senso di particolare empatia, perché “Eppur parenti siamo un po’ / Di quella gente che c’è là / Che come noi è forse un po’ selvatica”.
Non vi dico i dettagli del finale, spumeggiante e pieno di colpi di scena, casomai vi capiti di vederla a teatro (e non ve ne pentirete), ma almeno il senso del titolo fatemelo spiegare: si tratta di un antico detto genovese: “l’articolo quinto, chi l’ha in mano ha vinto”…che esprime la vittoria (presunta…quanto durerà davvero?) di Tommaso sulle donne della famiglia. Io ero in seconda fila, me la sono gustata davvero moltissimo e andrei volentieri anche a rivederla, questa commedia, se mi capitasse. Che ci racconta un mondo piccolo borghese che magari non esiste più, che è davvero poco, pochissimo politically correct, ma che mi ha affascinato e divertito (così come tutto il numeroso pubblico presente) davvero tantissimo.
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Termino con due note, come dire, di costume. La prima dedicata alla “genovesità” del bravissimo Gianni Way, che alla fine fra i vari saluti ha detto: guardate che la compagnia mica è la mia, non dite così che sennò dopo devo tirare fuori io le palanche! La compagnia non è mia, ma di tutti quanti! – fantastico! La seconda riguarda un gruppo di ragazzi, decisamente giovani, mi pare fossero un paio di maschi e cinque ragazze, che erano seduti davanti a me, io in seconda fila e loro in prima. Alla fine della commedia, Gianni Way li ha pubblicamente elogiati per la loro stessa presenza: non capita mica tutti i giorni di avere un gruppo di ragazzi a teatro in prima fila! – ha declamato, con conseguente applauso. Ma io che stavo alle loro spalle ben sapevo che parecchi di questi giovani in realtà avevano tentato di seguire un po’, poi non capendo quasi niente del dialetto genovese, si erano messi a chiacchierare dei fatti loro, anche a voce abbastanza alta, tanto che un paio di volte mi era toccato zittirli, a giocare con i cellulari, a farsi, insomma, i fatti loro senza più minimamente seguire qual che accadeva sul palcoscenico, facendo solo un po’ di baccano quando tutti noi si applaudiva. Che dire?…tal dei tempi è il costume!
Ma chi se ne importa, in fondo? Io mi sono divertito un sacco. Dopo aver salutato e ancora ringraziato di tutto cuore patrizia Velardi per avermi così cortesemente invitato, sono uscito dal teatro pieno di un sano e caldo buonumore, che in tempi difficili come questi non può che far davvero bene all’anima. Di fronte a me, lassù, il monastero diventato un castello, silenzioso e bellissimo nel terso cielo invernale. L’ho ancora scrutato qualche attimo, per poi salutarlo con un convito “arrivederci”.
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