La storia di un ragazzo del 1926 perduto nel labirinto della Storia, tra lotta partigiana e prigionia: “L’ultima Staffetta” di Alessandro Grattarola.

Ho saputo dell’esistenza di questo libricino (120 pagine, comprese le foto e l’indice, un centinaio di testo) per puro caso, nel Giorno della Memoria di quest’anno. Ero andato a Casal Cermelli e c’erano Lorenzo Grattarola e Mariangela Dotto che ne parlavano…beh, mi è venuta naturalmente la curiosità di leggerlo, questo diario-testimonianza di un ragazzo del 1926 (la generazione di mio padre, che è del 1927), Alessandro Grattarola, ma…impossibile: non è più in vendita, non ce n’è neppure una copia nella biblioteca di Casal Cermelli. Ohibò! E allora? Allora, testardamente, mi son messo a cercare, grazie al sito Librinlinea della Regione Piemonte (http://www.librinlinea.it/search/public/appl/search.php), dove fosse reperibile questo libretto. E l’ho trovato alla Biblioteca di Ovada, dove una gentile addetta me l’ha dato in prestito per un mese anzi un poco di più. L’ho letto con la giusta e doverosa attenzione…ma anche con emozione e coinvolgimento…e adesso…adesso scrivo questo articolo perché desidero perorare la causa della ripubblicazione di questo libretto!

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Perché è il diario, scritto senza nessuna particolare pretesa letteraria, di un ragazzo nato in questa nostra provincia alessandrina, a Ponzone, a 10 km da Acqui Terme, nel 1926, coinvolto e sconvolto da avvenimenti ben più grandi di lui, quelli della seconda guerra mondiale, lui, neppure di leva, che viveva una vita tutto sommato accettabile e serena, prima  del tutto scombinata dal disastro dell’8 settembre, per poi giungere all’adesione alla guerra partigiana, nell’VIII Divisione Giustizia e Libertà, quindi la cattura  – e la violenza degli interrogatori – per poi giungere all’angoscia della deportazione in Germania in un campo di concentramento, satellite di Buchenwald, quindi la fuga, durante la ritirata dei nazisti di fronte all’arrivo degli alleati, infine una sorta di ambientamento di vita in Germania e quindi il ritorno… E questa sincera, disarmante semplicità, mi ha colpito davvero molto favorevolmente: mai e poi mai Alessandro Grattarola (detto Sandro, e così lo chiamerò d’ora in avanti in questo articolo) pensa di essere – o vorrebbe essere – un eroe, un guerriero senza macchia e senza paura. Mai. Sandro narra sempre e soltanto la vicenda di un ragazzo perduto nel labirinto della Storia, quella che, come cantava qualche anno fa Francesco De Gregori, non si ferma certo davanti ad un portone. In questo labirinto che sconvolge – e per sempre, credo – la sua vita, lui segue ed è trascinato dagli eventi, così come tanti ragazzi e ragazzini di quella generazione, che fossero dall’una o dall’altra parte della barricata di un’allucinante guerra civile, gli uni e gli altri sotto il terribile tallone nazista!

panorama da Ponzone

Non voglio narrarvela completamente questa vicenda, perché spero davvero che venga ripubblicato questo libretto, magari proprio dall’editore di questo giornale, e di poterlo andare a presentare nelle biblioteche e nelle librerie della nostra provincia, e mi piacerebbe diventasse un libro letto nelle scuole, come viva testimonianza di un mondo e di una guerra che sono lontane da noi, ma nello stesso tempo fanno parte della nostra storia e della nostra anima. Che poi, proprio questo stile così semplice e totalmente antiretorico mi ha molto convinto e coinvolto. Mi è stato facile mettermi nei panni di un ragazzo che aveva avuto la relativa fortuna, lui, il più gracile dei tanti fratelli (8 in tutto fra maschi e femmine), di andare assunto a servizio di un Barone che era addirittura Gentiluomo di Corte, e quindi seguirlo come cameriere personale anche nei viaggi di questi al Quirinale, dove interloquiva personalmente con il Re, restando laggiù un intero mese ogni due o tre: Sandro ebbe così modo di conoscere Roma, ma soprattutto la fortuna di fare una vita sicuramente migliore di quella della stragrande maggioranza dei suoi coetanei, legati al lavoro di un mondo contadino duro e difficile o di un mondo operaio con pochi diritti e molta fatica. Ma tutto questo si sgretolò l’8 settembre 1943: l’armistizio, la fuga del re e della corte, l’arresto del Barone, dato che era così legato ai Savoia…e poi gli scontri armati fra due eserciti fino al giorno prima alleati e improvvisamente nemici.

 

Un ragazzo che si ritrova sbandato ed impaurito alla bella età di 17 anni! E allora si rifugia prima dalla sorella, a Casal Cermelli, quindi entra, così giovane e quindi alla ricerca di una sua ragion d’essere, di una sua identità, in una piccola banda partigiana, che operava nell’acquese, per nulla politicizzata, legata a “Giustizia e Libertà”. Sandro nulla sa di politica, anzi, quando parla delle brigate garibaldine, legate al Partito Comunista, esprime senza remore il disagio causato dal fatto che facevano “troppa politica”. E lui vive tutta questa prima parte, della vicenda che narra, come una sorta di giovane sogno avventuroso. Racconta queste vicende partigiane esprimendo né poco  né punto eroismo, pochissimi scontri e nessun vero fatto di sangue. A parte quello, dolorosissimo e tremendo, della morte di suo cugino, Lodovico Ravera, classe 1925, che era di vedetta e se ne andava da Ponzone dopo aver avvisato dell’arrivo di una colonna di nazisti, che però avevano mandato in avanguardia un gruppo di soldati in bicicletta, quindi silenziosi ed invisibili fra gli alberi del bosco, che se lo trovano davanti e lo ammazzano senza pensarci due volte.

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Poi arriva, però, il giorno dell’Ultima Staffetta, quella che da il titolo al libro. La sfortuna lo perseguita: rompe la catena della bici con la quale pedalava per portare, cuciti nella fodera del giaccone, i messaggi fra l’una e l’altra delle formazioni partigiane, viene catturato, rischia la fucilazione immediata, ma lo salverà il sacerdote del paese di Cavatore, lo interrogano a suon di botte, lo mandano in un campo di raccolta. Qui vive un ultimo sobbalzo di ottimismo, quando ritrova un suo grande amico di Casal Cermelli, tal Madonna (curiosamente Sandro ne dice soltanto il cognome)…ma è cosa breve assai, perché dopo pochissimo lo destinano ad un campo di lavoro in Germania, in uno dei campi “satelliti” di Buchenwald, e quella è, letteralmente, la sua discesa all’inferno.

Il filo spinato a Buchenwald

Non vi riassumerò l’orrore che si trova ad affrontare, ma vorrei narrarvi un episodio – fra i tanti – di quello che accadde a Sandro in quel periodo trascorso da uomo libero in Germania, che mi ha colpito e commosso per questa semplice e naturale riconciliazione fra esseri umani. Perché accade che, durante la ritirata dei nazisti, che trascinano con loro una lunga colonna di prigionieri, Sandro e diversi sui compagni di prigionia, riescono, durante un attacco aereo, a fuggire, nascondendosi fra gli alberi del bosco. Dopo un po’ di girovagare, trovano alcuni chalet abbandonati, li riattano e ci vanno a vivere…e costruiscono una pista da ballo! Trovano con un po’ di fortuna un vecchio pianoforte, e…e succede una specie di incredibile socializzazione, perché signore e signori e ragazze tedesche iniziano una serie di serate e pomeriggi di ballo con i nostri ragazzi italiani, quasi come se nulla fosse stato, in un vero trionfo della vita che riprende la sua forza nel nome della musica e del ballo!

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Sembra un’invenzione letteraria, no? Ma non lo è, perché quello di Sandro è proprio solo e soltanto un diario, un resoconto semplice e piano di quelle che appaiono a noi, con tutta evidenza, avventure decisamente lontane dall’ordinario. Vi devo confessare che, da lettore di narrativa di guerra, partigiana o alpina o americana che fosse, in diversi momenti del racconto di Sandro, mi è capitato di chiedermi come si sarebbe potuto più attraente la vicenda, se solo avesse avuto modi e toni più letterari. Avevo un po’ il desiderio di migliorare quello che stavo leggendo. Mi sono anche confrontato con un’amica che di editing se ne intende, eccome, che è inorridita e mi ha subito redarguito: Ma come, abbiamo un testo spontaneo e sincero, un diario quotidiano dalla disarmante semplicità, e tu vorresti renderlo più letterario, più costruito?  Direi proprio di no, no e poi no! Mi è bastato rifletterci un secondo per dare pienamente ragione a questa mia amica, perché questo testo ha la sua profonda ragion d’essere proprio nella su spontanea semplicità. Concludo esprimendo  la convinzione  che abbiate capito tutti, da questa mia recensione assai convinta ed appassionata, che questo libricino merita di essere ristampato e merita di essere letto, eccome. La storia semplice di una ragazzo perduto – ma poi ritornato – dentro il terribile labirinto della Storia.