Cambiamenti climatici: nella viticoltura è tutto da rifare? “Anche no!!!”

Alessandria – Cambiamenti climatici: nella viticoltura è tutto da rifare? “Anche no!!!”.
Con un triplo esclamativo, rassicura l’eno-scienziato Donato Lanati, partendo da scienza, ricerca e storia.
“Con temperature che si avvicinano ai 35 °C, in prima battuta, abbiamo un aumento della fotosintesi, con conseguente elevata produzione di zuccheri e, contestualmente, un vertiginoso crollo di acidità e aumento del pH – spiega Lanati. – Sopra i 37 °C la fotosintesi viene bloccata e la pianta entra in stress, mentre con temperature di 35 °C gli acini esposti ai raggi solari raggiungono i 45-50°C interni, con conseguente ossidazione degli aromi, determinando un vino che esprimerà sentori di confettura e di marmellata. Negli acini di uve nere esposti al sole, anche, i tannini vengono ossidati e, una volta passati dalle bucce al mosto, avranno una limitata possibilità di reagire con gli antociani e formare un colore stabile e duraturo”.
Negli ultimi anni, in alcune zone, si è verificato un anticipo della maturazione di 2-4 settimane, ma con grande disomogeneità tra i diversi acini dello stesso grappolo. “Sappiamo bene che la qualità si ottiene solo quando tutti gli acini di uno stesso grappolo hanno raggiunto la stessa maturità; diversamente ne verrà pregiudicata l’alta qualità dei vini”.
Che fare, dunque? I vigneron italiani dovranno smontare la viticoltura della tradizione fatta di terroir, doc, docg e usare ibridi o impiantare vigneti in latitudini e altitudini maggiori? Dovranno sostituire varietà autoctone che si sono adattate da secoli? “Assolutamente no!”
“Sono convinto che la ricerca in viticoltura e in enologia ci permetterà di preservare i nostri vigneti, i nostri territori e i nostri vini icona – rassicura l’eno-scienziato; – dobbiamo fare leva sulle conoscenze: un vigneto traspira tra i 350 e i 700 litri di acqua per ogni litro di vino prodotto, con il 55% del consumo idrico nel periodo che va dall’allegagione all’invaiatura e il 20% tra l’invaiatura e la vendemmia. L’acqua diventa, così, un bene prezioso e se si potesse fare un’irrigazione mirata, avremmo risolto metà del problema, tuttavia, possiamo fare anche qualcos’altro”.
“Per evitare i danni dei raggi ultravioletti sugli acini e ridurre l’influsso delle alte temperature si può intervenire con una serie di misure puntuali, tra le quali:
ritardare al massimo la potatura invernale, al fine di ritardarne il germogliamento e, con esso, la maturazione;
proteggere i grappoli con l’ombrello della parte alta del filare, abolendo la cimatura ed eliminando le femminelle che sono forti traspiratrici di acqua;
ricorrere all’utilizzo di reti per aumentare l’ombreggiamento dei vigneti o di pannelli per tendere alla temperatura ideale di 27 °C all’altezza della chioma;
nella potatura verde occorre tener presente che le foglie adulte traspirano meno di quelle giovani di età inferiori ai 35 giorni;
garantire il rapporto superficie fogliare/peso dei grappoli di circa 1,5/2 mq per ogni kg di uva;
attuare la sfogliatura solo sul lato del filare meno esposto;
studiare trattamenti che rendano la vite più resistente agli stress idrici, con prodotti biostimolanti derivanti da lieviti ed estratti batterici, ricchi in prolina che modificano la traspirazione;
adoperare trattamenti sull’uva con zeolite e caolino che riducono la perdita d’acqua per traspirazione e abbassano anche la temperatura dell’acino”.
Tra le diverse misure per fronteggiare i cambiamenti climatici in viticoltura, Lanati torna anche ad insistere sulla resistenza/efficacia delle piante franche di piede; convinzione maturata anche in seguito all’esperimento “spaziale” che ThalesAlenia Space sta conducendo in collaborazione con 5 scienziati a livello internazionale, tra i quali c’è, appunto, anche Lanati.
Prima dell’avvento della fillossera in Europa (1863) la vite coltivata in tutto il mondo era franca di piede (con 2 milioni di ettari coltivati, lo è ancora in alcune zone dai terreni e dai climi diversi), cioè non utilizzava il portinnesto americano. Oltre ad essere più longeve (vivono oltre 100 anni), le viti franche di piede mostrano una resistenza alla siccità maggiore di quelle americane, sono molto resistenti agli stress idrici e termici, traspirano solo 150 litri/a litro di vino e la qualità/finezza dei vini è eccezionale.
Quindi, è fondamentale sperimentare il ritorno al franco di piede nei terreni anti fillosserici, terreni silicei, acidi, vulcanici o freddi d’inverno; oppure, correggere i terreni argillosi o meglio ancora aumentare la resistenza alla fillossera radicicola o gallecola fogliare, mediante composti biodegradabili sostenibili.
Inoltre, partendo dalla consapevolezza che la vita biologica di un vigneto si svolge per 80% nel terreno e che da esso dipende il risultato quali-quantitativo, le lavorazioni devono mirare a mantenere il massimo grado di umidità, per tanto, è indispensabile il ricorso alla sostanza organica e, quindi, all’humus, per mantenere micro e macro bioma, fondamentali per una corretta nutrizione e fisiologia della pianta”.
Ad aprire una nuova frontiera sulla ricerca scientifica, quindi, è lo studio delle barbatelle portate nello spazio (ThalesAlenia Space), che dopo aver vissuto una situazione particolare di microgravità, pare reagiscano nei confronti delle malattie fungine e alla fillossera esprimendo caratteri di resistenza. “Questo – chiosa Lanati, – consentirebbe alle piante franche di piede di dialogare direttamente (e non più attraverso un portinnesto) con il terreno/territorio che è la vera ricchezza dell’enologia”.

Continua a leggere l'articolo dopo il banner