La questione della lingua italiana torna d’attualità, non solo in Italia ma anche in Europa
La “questione della lingua” ha attraversato la storia d’Italia fin dagli albori. E’ nel Trecento che Dante Alighieri scrive il “De Vulgari Eloquentia” nel quale, sintetizzando, sostiene che e’ necessario usare un volgare illustre, che sia cioe’ comprensibile ed elegante, ma che non essendoci volgari adatti (egli esamina i vari dialetti italiani e li scarta tutti, compreso il toscano) lo si puo’ modellare sugli esempi dati dalla letteratura, in particolare da autori come Guinizelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e lo stesso Dante.
Il trattato di Dante rimane pero’ sconosciuto fino agli inizi de ‘500 allorche’ viene scoperto e ripubblicato dal Trissino. E’ proprio nel ‘500 che la questione della lingua viene riproposta con autorevolezza dal Bembo che indica come modello linguistico il fiorentino letterario del ‘300 del quale Petrarca, per la poesia, e Boccaccio, per la prosa, sono i massimi esponenti, con l’esclusione di Dante in quanto, sempre secondo il Bembo, la Divina Commedia era infarcita di troppe espressioni popolari. E’ sempre nel ‘500 che nasce l’Accademia della Crusca con il compito di secernere la lingua “pura” dalla “crusca” cioe’ da ogni contaminazione, stabilendo le regole grammaticali e linguistiche dell’italiano.
Nell’800 la questione della lingua torna d’attualita’ dopo la creazione del Regno d’Italia, allorche’ Alessandro Manzoni rende pubblica la Relazione commissionatagli dal Ministro della Pubblica Istruzione Broglio nella quale suggerisce metodi e strumenti per unificare la lingua nel Regno da poco costituito. Nella relazione veniva proposto l’impiego massiccio di maestri toscani nelle scuole, viaggi d’istruzione in Toscana per gli studenti, la redazione di un vocabolario della lingua italiana “secondo l’uso di Firenze”, il tutto sulla scorta dell’esperienza personale del Manzoni che, nel passaggio dalla prima alla seconda edizione dei suoi Promessi Sposi, aveva “risciacquato i panni in Arno”.
Nel ‘900 vari fattori sociali ed economici hanno favorito la definitiva armonizzazione linguistica: il ruolo del sistema scolastico nella promozione di un unico modello, il servizio militare obbligatorio, l’emigrazione sud-nord e campagna-citta’, l’influenza della radio e della televisione.
Oggi la questione della lingua torna di attualità in Italia, anche se sotto una diversa prospettiva: non piu’ quale modello di lingua scegliere, ma come difendere l’esistenza stessa della nostra lingua nazionale dall’attacco non gia’ da rivendicazioni localistiche (i dialetti al contrario con le loro eventuali contaminazioni possono contribuire a mantenere viva una lingua) ma dall’indiscriminato uso dei cosiddetti forestierismi, e in particolare degli anglicismi.
Mentre nel mondo aumenta l’interesse per l’apprendimento della lingua italiana, non solo da parte di chi ha origini italiane ma da parte di chi ha interessi culturali verso la storia dell’arte, l’archeologia, la lirica – come ha sottolineato di recente il Ministro della Culltura Sangiuliano intervenendo alla “Soft Power Conference” organizzata a Venezia da Francesco Rutelli – in Italia, invece, l’uso dell’italiano e’ minacciato dall’abuso di anglicismi nella scuola, nella pubblica amministrazione, nelle aziende, nel linguaggio giornalistico e televisivo, a nostro parere più per uno snobistico sfoggio di una pretesa superiorità intellettuale che non per effettiva necessità derivante dall’assenza, in italiano, del termine corrispondente.
Siamo sicuri che dire, ad esempio, “team”, “briefing”, “meeting”, lo si faccia perché dire in italiano “squadra”, “riunione”, “incontro” risulta meno appropriato e non per una forma puerile di snobismo culturale?
Il guaio e’ che l’abuso di anglicismi cui veniamo sottoposti quotidianamente non solo nuoce alle varie lingue nazionali, ma nuoce alla stessa lingua inglese, il cui apprendimento da fattore culturale tendente alla migliore conoscenza di un popolo, della sua cultura, della sua storia, diventa mezzo per l’uso (piu’ o meno corretto) di alcune centinaia di vocaboli: così si impoveriscono le lingue nazionali e con esse la stessa lingua inglese che viene ad assumere non tanto il ruolo di lingua internazionale, quanto quello di lingua franca per sopperire ad alcuni bisogni essenziali di comunicazione.
Fuori d’Italia si reagisce: e’ nota in Spagna l’attivita’ dell’Istituto Cervantes per la tutela della lingua spagnola, così come l’attivita’ dell’omologa Alliance Francaise in Francia, supportate dall’essere la lingua spagnola e la lingua francese istituzionalizzate come lingue ufficiali nelle rispettive Costituzioni.
In alcuni Paesi del Nord Europa (Olanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca) nei quali da diversi anni per attrarre studenti stranieri nelle proprie universita’ da impiegare come forza lavoro qualificata per il proprio mercato del lavoro sono stati moltiplicati i corsi universitari in lingua inglese, si assiste a tentativi di retromarcia. Ci si e’ accorti che non e’ utile importare studenti dall’estero se costoro non sono in qualche modo incentivati ad apprendere anche la lingua locale (in Olanda si e’ calcolato che oltre il 70% degli stranieri laureati nelle locali universita’ torna nel Paese di origine o sfrutta comunque in altri Paesi le conoscenze acquisite, perche’ non si puo’ vivere e lavorare in un paese di cui non si conosce la lingua). Sempre in Olanda molti docenti hanno notato un impoverimento della didattica dovuto all’inevitabile esemplificazione cui si ricorre insegnando in una lingua straniera; il timore e’ che una lingua come l’olandese, se trascurata nell’ambiente accademico, a un certo punto non disporra’ piu’ delle parole necessarie per affrontare gli argomenti della contemporaneità.
In Norvegia si discute da tempo di restringere il numero di corsi universitari in lingua inglese ed al contempo di offrire agli studenti stranieri corsi gratuiti di lingua norvegese.
Analoghe problematiche sono in discussione in Danimarca e in Finlandia.
E in Italia? Da noi si stenta a prendere coscienza del problema. Gli appelli e le proposte dell’Accademia della Crusca e degli “Attivisti dell’Italiano” sembrano cadere nel vuoto. Qui non si tratta di fare i puristi, perche’ sappiamo bene che non esistono lingue pure e che anzi le contaminazioni arricchiscono le lingue, ma normalmente le parole provenienti dall’esterno vengono adattate alla lingua nella quale vengono introdotte , ne’ vogliamo imporre traduzioni o vietare parole, ma stimolare e favorire l’evoluzione dell’italiano anche tramite neologismi e adattamenti, come è stato per secoli e come avviene tutt’ora in altre lingue – come ben sappiamo noi italiani che viviamo all’estero (in Spagna, in Francia o in paesi latino americani). Pretendiamo che, quando la Pubblica Amministrazione o la Televisione Pubblica italiane si rivolgono a noi cittadini italiani, lo facciano in lingua italiana che e’ la lingua che abbiamo diritto di conoscere e nella quale abbiamo diritto di esprimerci
Un esempio fra tutti: il termine “lockdown” diffusosi durante la pandemia di COVID-19. Fino ad allora di lockdown in Italia non si parlava, ma si usavano i termini “blocco”, “chiusura”, “isolamento”, “quarantena”. Improvvisamente a marzo 2020 il termine lockdown, ripreso da un comunicato in inglese dell’OMS, compare sul Corriere della Sera e altri giornali, e la sera stessa in televisione. Da quel momento si è iniziato ad usarlo in modo esclusivo, eliminando tutte le alternative, e di conseguenza hanno iniziato ad usarlo tutti i cittadini. Ma il termine non è venuto dal basso, ma è stato calato dal linguaggio dell’informazione che lo ha scelto. In Francia, Spagna e nella Svizzera italiana nessuno ha sentito il bisogno di importare “lockdown” ma si sono usati semplicemente i termini esistenti nelle relative lingue: “confinement”, “confinamiento”, “confinamento”. Purtroppo questo e’ solo uno dei tanti casi in cui sia nella pubblica amministrazione che negli atti legislativi vengono usati termini stranieri non in assenza del corrispondente termine italiano, ma perche’ si ritiene, probabilmente, che usare il termine inglese al posto della parola italiana renda la propria comunicazione – e quindi la propria persona – piu’ autorevole.
Gli anglicismi sono diventati in Italia il “latinorum” dei tempi moderni: vengono usati dal ceto dominante (politici, giornalisti, conduttori televisivi) per dominare il popolo (ritenuto) ignorante, come ci ricorda il Manzoni nel dialogo fra Don Abbondio e il povero Renzo nei Promessi Sposi, accadeva nel ‘’600 in terra di Lombardia. Fa male a noi che viviamo all’estero vedere come le pagine “social” di alcuni Comites e anche di qualche Consolato siano redatte esclusivamente nella lingua locale.
Occorre reagire. Le proposte di legge presentate in Parlamento per l’ufficializzazione in Costituzione dell’Italiano sembrano languire nel disinteresse di aule quanto mai sorde a questo riguardo: bisogna dare un forte segnale ai nostri parlamentari affinché’ si sveglino con una mobilitazione delle associazioni culturali, dei circoli e delle case editrici sensibili al problema.
Di questi argomenti parleremo ad ottobre durante una conferenza che si svolgerà ad Arrecife, in Lanzarote, nell’ambito della Settimana della Lingua Italiana nel Mondo, organizzata dal Comitato delle Isole Canarie della Società Dante Alighieri, nella persona del suo infaticabile Presidente l’Avvocato Alfonso Licata.
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Aldo Rovito (Presidente Associazione Culturale “Identita’ Italiana – Italiani all’estero”