Ma quanto dolore c’è nel cuore di una poetessa? “Marina”, con Monica Massone, a Bosco Marengo.

Avevo visto, ammirato, applaudito, Monica Massone nel suo Mostri Sacri, quest’estate ad Oviglio. Ne era scaturito un articolo e soprattutto il desiderio di vederla in qualche altra sua performance. Quando ho saputo che a Bosco Marengo avrebbe portato una particolare opera teatrale con lei attrice e due danzatrici, Giorgia Zunino e Tatiana Stepanenko, che è anche l’ideatrice e la regista dello spettacolo, non solo ci sono andato io ma ho convinto anche la mia carissima amica Mariangela Dotto – presidente di Insieme per Leggere, di Casal Cermelli – nonché Massimo e Simonetta, ad accompagnarmi. E devo dire che ne valeva certamente la pena, convincerli, perché è stata una serata, indimenticabile, di grande intensità emotiva.

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E poi, devo confessarlo, io sono un appassionato lettore di poesia, quindi una pièce teatrale dedicata ad un’immensa poetessa come Marina Cvetaeva, della quale possiedo nella mia biblioteca sia molti libri poetici che critici e narrativi, mi intrigava davvero molto. Poi ormai conosco le qualità drammatiche di Monica Massone, che trovo strepitose. Ho scritto, con totale e disarmante semplicità, nella chiosa finale dell’articolo che le avevo dedicato, che l’avrei vista molto bene in una parte fortemente drammatica come quella di Cassandra nelle “Troiane” di Euripide…e lei mi aveva personalmente confermato di avere nelle sue corde quel genere così potente e tragico. Capacità, tragicità e immedesimazione interpretativa che ha dispiegato con grandissima efficacia in MARINA – sottotitolo: nemmeno io sapevo di essere un poeta.

Che non è una pièce facile, ma è estremamente suggestiva, in quel suo pervasivo drammatico dolore…e questo unire due danzatrici che rappresentano – almeno, così le ho interpretate – le due età di Marina…le speranze della giovinezza, quando la poesia la prende come un fuoco che tutto infiamma e tutto trascina, e quelle di una terribile, angosciosa maturità. La giovinezza:

Ai miei versi scritti così presto, / che nemmeno sapevo d’esser poeta… / per i miei versi, come per i pregiati vini, / verrà pure il loro turno.

Ed eccola, la giovane danzatrice, che mai sorride, mai…che circonda il corpo ieratico, teso e dolente, di Monica – Marina, che mi è apparsa narrare, come da uno spoglio e disperato al-di-là la sua vicenda in questo, di mondo, dove la breve ala della sua poesia è transitata in fretta…apparentemente senza nulla lasciare alla sua epoca…salvo poi essere accoratamente amata nel tempo per quei versi di cui verrà pure il loro turno. E quella danzatrice che è sogno, forse ricordo – ombra di un sogno, di molti sogni, sogni d’amore e di poesia. Così giovane e così bella, quella danzatrice, che quasi quasi ci possiamo credere, nei sogni…forse…

E Monica? Lei, tanto i versi quanto la parte più diaristica del testo, non si limita a recitarli, no, lei li vive con tutta la forza di un’immedesimazione totale e quasi trascendentale…il suo viso e il suo corpo raccolgono tutte le infinite sfumature di una magistrale performance di recitazione, sotto il minimo comun denominatore della tragedia. E aggiungo che fa benissimo, perché non solo la morte per impiccagione, suicida, rende Marina un povero angelo caduto, ma la sua vita, all’inesausta ricerca di un amore che si avvicinasse alla trascendenza, è stata costellata di fallimenti di ogni genere.

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Volete capire meglio quello che voglio intendere? Premesso che il marito era un ufficiale dell’armata bianca, quella che si contrapponeva aspramente ai comunisti, la Cvetaeva emigrò prima a Berlino e poi a Praga nel 1922. Poi, seguendo gli orientamenti della comunità russa emigrata, si trasferì a Parigi nel novembre 1925. Tornò a Mosca solo nel 1939, con la speranza di ricongiungersi al marito, di cui si erano perse le tracce e che in realtà non era riuscito a fuggire in Spagna, ma era stato arrestato e fucilato dai comunisti in URSS. Ma, e qui viene fuori, nella sua pienezza, il lato tragico che sottende tutta la vita di Marina. Perché uno pensa, leggendo della sua lunga permanenza parigina, che lei chissà quale vita letteraria avrà avuto, lei, una grande poetessa russa nella città allora più letteraria del mondo…invece…invece, sarà ignorata dai colleghi letterati per l’intero periodo della sua permanenza in Francia, durato appunto ben quattordici anni. I suoi incontri fugaci con gli scrittori francesi non le aprono alcuna prospettiva, le sue lettere a Gide o a Valéry restano senza risposta. I numerosi tentativi di pubblicare gli scritti francesi saranno destinati a fallire, le traduzioni dei poeti russi in francese non incontreranno sorte migliore.

Al momento di lasciare il paese, scrisse, in russo, un’ultima poesia, nella quale paragonava il proprio destino a quello di Maria Stuarda, partita dalla Francia per l’Inghilterra, dove l’attendeva la ghigliottina. Una sorta di premonizione di quello che l’attendeva in Russia? La poesia s’intitola Dolce Francia e in epigrafe riporta questa formula di Maria Stuarda, ripetuta tre volte e firmata: Addio, Francia! Addio, Francia! Addio, Francia!. Ecco il testo di questa breve poesia:

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Più dolce della Francia / non esiste contrada. / Come unico ricordo / due perle mi ha donato. / Immobili rimangono / all’estremità delle ciglia. / Avrò una partenza / alla Maria Stuarda.

Fu pienamente profeta di sé stessa. Perché, tornata a Mosca nel 1937, fu una vittima del tremendo e folle regime stalinista…venne subito mandata in un campo di lavoro. In uno stato di estrema povertà – pochi soldi, pochissimi, guadagnati con traduzioni letterarie o lavori manuali – con il totale isolamento dalla comunità letteraria. Sino a quando, il 31 agosto 1941, si impiccò. E la sua grande poesia venne riscoperta e rivalutata sono vent’anni dopo e forse più. Grande? Immensa. Con una poetica cangiante fatta di moltissima emozione. Ecco come esprime in poesia un semplice e tenero saluto: Ai miei cari per il viaggio / Alzerò canti in memoria / Che a essi torni in qualche modo / Quel che un tempo hanno donato. Una meravigliosa complessa semplicità, no?

Ma non dobbiamo dimenticare che la Cvetaeva non amava la vita in senso concreto, quotidiano, perché non è quella in cui riesce a credere. Scrisse in molti momenti di questo disagio: Non amo la vita terrena, non l’ho mai amata. E ancora: In questo mondo non so vivere, oppure: Io non riesco a vivere, e cioè a durare, non so vivere nei giorni, e ogni giorno vivo fuori di me. Questo il male di vivere che sin da giovane ha incontrato.

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Ecco allora che nella loro rievocazione di un tale straordinario personaggio, Tatiana, Monica e Giorgia costruiscono una sorta di allegoria di disperazione e morte…nella giovane Marina che ancora tenta di volare, pur con ali inadeguate alla vita, nella Marina più matura (è morta che aveva solo 49 anni), con le ali ormai sfrangiate – e quindi inutilizzabili – da tutte le disgrazie che hanno costellato la sua grama esistenza. E fra loro Monica, con la sua parola timbrata con il timbro del dramma, sussurri e grida che scaturiscono dall’anima di una donna invincibile nella sua poesia, distrutta dalla realtà dell’esistenza. Dramma, più probabilmente tragedia, quindi, che come dicevo sopra, è stato il minimo denominatore di ogni parola detta in uno spettacolo che, a me, appassionato dall’alta poetica di Marina, ha donato emozioni fortissime e strazianti di quello strazio catartico che solo l’arte del grande Teatro può donare.

La mia compagna di teatro, Mariangela Dotto, pur non conoscendo e amando come me la Cvetaeva, quando è finito lo spettacolo era semplicemente piena di un’immensa ammirazione. Mariangela è una persona speciale, esprime un’empatia davvero incredibile. Sulla soglia, uscendo, ha preso le mani di Monica ringraziandola con genuina commozione per quello che aveva visto e vissuto. E Monica ne era sinceramente felice. E io pure. E se Marina da qualche parte del cosmo ancora esiste, credo che anche lei lo sarà.

 

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