Occhio della mente, occhio della memoria: la doppia mostra, da figlia a padre, di Sara e Bruno Vergano alla Casa dell’Artista a Portacomaro.

Novembre, abbuia presto. A salire verso la Casa dell’Artista di Portacomaro mentre cala l’oscurità, c’è da ritrovare il bagliore dell’ultimo crepuscolo, nel panorama che si apre agli occhi da lassù…ed è un momento in più di acuto stupore, lo stupore della fragile bellezza della fine del giorno. Guardo il paesaggio e rifletto, e lo assorbo. E sono felice di essere lì, a Portacomaro, in un luogo che amo molto, un luogo dove mi sento a mio agio.

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Ma stavolta, ve lo confesso, un po’ meno. Perché lei, Sara Vergano, è una persona disabile, che sta su una sedia a rotelle, che dipinge con le dita…una persona straordinaria, penso. Non perché è disabile: perché è un’artista. La mia razionalità mi spinge a pensarla esattamente così…ma io ho un problema, una défaillance, che mi spetta di confessarvi ora, per correttezza personale e professionale: soffro di una malattia che si chiama abilismo. L’abilismo è una brutta situazione, che il dizionario Treccani definisce così Atteggiamento discriminatorio e pregiudizialmente svalutativo verso le persone con disabilità. Certo, forse quello che provo io non è così potentemente drastico. Forse è semplicemente un forte disagio nel confrontarmi con il mondo della disabilità, una grave difficoltà di approccio, di comprensione. Sia come sia: non mi piaccio, in questa situazione. E oggi per superare questo mio disagio, ho portato con me un esorcista. Beh, a vederla, non ha per niente l’aspetto dell’esorcista: in realtà Donatella è una crocerossina, conosciuta a Monastero Bormida, dove fa la volontaria, con la quale ho condiviso alcune avventure intellettuali in quel di Vesime, dove abita. E dove ho imparato ad apprezzare la sua spiccatissima empatia verso chi soffre e verso il dolore degli altri. Vorrei mi insegnasse a guardare le opere di Sara Vergano con un atteggiamento corretto, senza pensare la cosa che penserebbe chi soffre di abilismo: ma com’è brava, nonostante… disapprovo talmente questo mio atteggiamento, che a Donatella non l’ho minimamente confessato. Spero che la sua presenza mi aiuti, punto e basta.

Entriamo, saluti e convenevoli con Carlo Cerrato e Vincenza, la splendida creatrice di oggetti di stoffa e di artigianato artistico che condivide con Carlo, con una sua mostra permanente, in quegli spazi della Casa dell’Artista… arriva Sara, accompagnata sulla carrozzina dal fratello. E io, che, in qualsiasi altro caso mi sarei dedicato ad una ridda di domande – più o meno intelligenti, come al solito – all’artista, di fatto mi sono bloccato. Non sapevo, letteralmente, che fare, che dire. Ho guardato Donatella che a sua volta mi osservava…aveva capito benissimo il mio disagio – che lei non provava minimamente – e in qualche modo strano mi donava almeno un po’ di quell’empatia che a me mancava. Ho guardato Sara Vergano con occhio diverso. Devo scrivere della sua opera, dei suoi quadri, a prescindere da quella sedia a rotelle: devo giudicare – per quanto sono in grado di fare – un’artista in quanto tale, non in quanto disabile!! Punto…e basta!

Così siamo scesi al piano di sotto, dove sono esposti i quadri della figlia, Sara, insieme, in apposite teche, ad un po’ di piccoli ritratti e bozzetti, a china, inchiostro e matita del padre, Bruno. Che sono deliziosi, azzeccatissimi, pieni di un’intrigante e divertita arguzia. Da un somigliantissimo Bruno Gambarotta a tanti altri. E poi c’è Sara. C’è un olio che lo guardo e penso a Chagall – da me adorato – e che infatti si intitola proprio Omaggio a Chagall. Però…e poi mi guardo intorno e mi lascio avvolgere e conquistare da Sara Vergano, artista. E ci sono fiamme e mareggiate, spiagge e tramonti, ci sono i colori delle foglie delle colline nel Sole d’Autunno che è il titolo dell’etichetta del Grignolino del Papa, il vino che lì a Portacomaro tutti gli anni vendemmiano ed etichettano con l’aiuto di un grande Artista.

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Ci sono dipinti che potrei definire post-impressionisti, colori lividi e crudi – vedi Fango – ci sono plumbei cieli in tempesta, Solitudine di un albero scheletrico in un angolo e stratificazioni di colori che danno proprio il senso di qualcosa che non riesce a comunicare con qualcosa d’altro…solitudini, appunto. Ci sono Vallate che paiono scivolare nell’oscurità, fiori coloratissimi, pieni di una sostenuta vitalità, altri fiori che diventano nuvole, ma anche mari che diventano nuvole, in un brulicare intenso di bellezza, di impressioni di vita. Giro, fotografo, mi immergo del mondo di Sara, nel mondo d’artista di Sara, della sua spregiudicata bellezza nell’osservarlo, quel mondo che la circonda. Il trionfo del colore, si potrebbe sintetizzare.  Sono – siamo – ammirati, riguardiamo i quadri, non sono molti, il tempo ce lo consente, con sincera ammirazione, con gioia.

Poi saliamo al piano superiore, il sottotetto. E troviamo tutta la possibile disperazione metafisica dell’esistenza. Ci immergiamo infatti nell’opera di Bruno Vergano, il padre. Che è mancato nel 2010, ma in tutta la sua vita artistica, non ha mai fatto una mostra a suo nome. Protagonista principale della pittura di Bruno è la città…ma una città priva di umanità, priva di colori caldi…priva di vita. Mi vengono alla mente le metafisiche, cupe visioni dell’espressionismo tedesco, abbinate alla narrativa di Kafka. Soprattutto mi vengono alla mente le cupe visioni architettoniche di Mario Sironi. Come per Sironi, anche per Bruno Vergano mi viene spontaneo un titolo: Il volto austero della pittura.

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Ed eccoci allora ad aggirarci fra strade e case dove gli esseri umani sono completamente assenti, dove strutture e colori sono totalmente esenti dalla presenza umana. Viene da pensare, ad osservare quelle opere così profondamente metafisiche, che stiamo scrutando luoghi dove una bomba ai neutroni, oppure un potente gas nervino, pare aver eliminato ogni forma di vita, lasciando però intatte le case, i ponti, le mura. Si, ma privi di vita, privi di anima. Guardandoci intorno, ci aggiriamo tra le case affastellate in una sorta di Cubismo cupo e livido, tra svariati Senza titolo, tra opere che ricordano davvero un Cézanne senza la forza del colore, ma offrono anche una rivisitazione oscura – senza nessuna speranza per il futuro – delle piazze di De Chirico. Come quelle, sì, metafisiche visioni, ma senza colore e senza alcuna possibilità di riscatto.

I pochissimi ritratti, poi, come la Figura in rosso oppure il Don Chisciotte, più che volti umani, appaiono come distorte visioni dell’umanità, dove quello che traspare è più il male di vivere, il disagio di stare nel mondo, piuttosto che una qualsiasi e minima umanità. Ma poi…poi c’è il lato ludico di Bruno Vergano, il lato colloquiale, anche birbone, bozzettistico, spesso irriverente. Dai ritratti di Paolo Conte e di suo fratello Giorgio, alle filastrocche più o meno goliardiche, ai tanti bozzetti o ritrattini, disegnati praticamente su qualsiasi supporto materiale, dal foglio di carta al pezzo di legno, dal coppo sino al pezzo di intonaco. In tutta questa cospicua e divertente produzione, c’è una vena di potente joie de vivre che stona radicalmente con il volto austero e kafkiano della sua pittura ad olio.

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Ma allora in questa mostra non abbiamo visto l’opera di due Artisti, ma di tre. Il primo: Sara. Con i suoi colori vividissimi, spesso fatti di macchie cromatiche contrapposte, che si risolvono in composizioni dissonanti ma anche assai stimolanti e intriganti, piene di quell’afflato di esserci, nel mondo che coinvolgono e affascinano. Il secondo: Bruno. Agli antipodi: colori lividi e freddi, case e città disumanizzate, dove la presenza umana ha perso ogni ragione d’essere, ogni pur tenue barlume di esistenza e di speranza. Due artisti così diversi, dunque. Ma che hanno in comune una cosa assai significativa, a mio avviso: la superfluità della figura umana. Che non abita le città disperate di Bruno, che non abita le spiagge solitarie di Sara. Ma poi, allora, a fare da contraltare a tutto questo, ad esaltare completamente il senso della figura umana, c’è il mondo alternativo di Bruno.

Che è quello dei piccoli ritratti su carta o su legno, quello dei tantissimi volti, dei sorrisi ineffabili di conoscenti e amici, resi vivissimi dalle matite, dalle chine o dalle biro di Bruno. Un Artista – infinitamente lontano dal Bruno metafisico – che immaginiamo acutamente scherzoso, ironico e sorridente…ma con una vena di non banale tenerezza verso gli amici a cui ha dedicato i sui ritrattini. Infatti al termine della mostra, ci ritroviamo a partecipare ad una conversazione dove Carlo Cerrato ci fa conoscere alcuni vecchi amici di Bruno e si parla di lui, dei quadri che non voleva esporre ma regalava, della Bottega Artigiana di Aramengo, che frequentava, si parlava del Presepe di Vezzolano. E la figura umana di Bruno si allontanava moltissimo dalla cupezza delle sue tele, a dimostrazione che nella Casa dell’Artista di Portacomaro, oltre alla presenza ben attuale di Sara, c’era una doppia presenza di Bruno…cosa che rendeva ancora più affascinante la mostra stessa.

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E il mio problema? L’abilismo? Spero, credo, per questa volta di averlo superato. Credo, spero, di aver saputo valicare il mio problema e di aver saputo guardare con gli occhi giusti le opere di Sara, non Artista nonostante, ma Artista e basta. Lo spero e lo credo, ma temo che non sia del tutto così. Certamente grazie a Sara e alle sue opere, ma grazie anche a Donatella e alla sua naturale empatia, stavolta è andata. Però…però quando Sara è andata via, ho fatto finta di nulla, praticamente non l’ho neppure salutata…e…sì, temo che questa brutta bestia che è l’abilismo io non sia riuscito ancora a scrollarmela di dosso. E perdonatemi se questa mia recensione di una mostra doppia – anzi tripla – molto affascinante e zeppa di spunti e riflessioni artistiche, l’ho fatta diventare anche una sorta di confessione di un mio disagio. Ma io non faccio il Critico d’Arte, io faccio il narratore di emozioni… e anche di questo ho creduto corretto narrarvi.