La “teoria delle finestre rotte” quale strumento utile per individuare la via positiva per lo sviluppo sociale, economico e culturale delle città

La “teoria delle finestre rotte” è un’interessante intuizione enunciata nel 1982 sulle pagine di The Atlantic (rivista statunitense di politica e cultura, fondata nel 1857) dal sociologo James Q. Wilson e dal criminologo George L. Kelling, che considerarono un esperimento condotto nel 1969 dal professor Philip Zimbardo dell’Università di Stanford (“Broken windows. The Police of Neighborhood Safety”, “Atlantic Monthly»”, marzo 1982, pagg. 29-38). Gli autori dell’articolo giunsero alla conclusione che la polizia non poteva garantire la sicurezza nelle strade se ci si limitava a perseguire i crimini, perché sarebbe dovuto fare in modo che fosse la comunità stessa a prevenirli, promuovendo meccanismi di controllo informale per salvaguardare la sicurezza dei cittadini.

Il professor Zimbardo condusse un singolare esperimento di psicologia sociale abbandonando due automobili identiche in due posti molto diversi, per strada: uno nel Bronx, la zona degradata di New York e l’altro in quel di Palo Alto, zona ricca della California. In poche ore l’auto nel Bronx venne saccheggiata e distrutta. L’automobile lasciata a Palo Alto, invece, rimase intatta. Una prima osservazione dei due fenomeni avrebbe potuto attribuire le cause del crimine alla povertà del quartiere ma, newyorkese, ma l’esperimento continuò e nella settimana successiva all’automobile di Palo Alto, che risultava ancora illesa, venne rotto uno dei finestrini ed il risultato cambiò: anche la seconda automobile divenne oggetto di furti e vandalismo, che ridussero il veicolo ad un rottame, come nel Bronx. Il vetro rotto di un’automobile abbandonata aveva innescato un processo criminale; quindi, non è la povertà il motore di questa mala azione, bensì qualcosa che ha a che fare con il comportamento umano. Venne osservato che la maggior parte dei saccheggiatori di Palo Alto non avevano l’aspetto di criminali o persone disagiate, essendo persone comuni che in apparenza non sarebbero state identificate come vandali, ma il finestrino rotto dell’automobile aveva costituito per loro un irresistibile indizio di abbandono dell’area, risvegliando i peggiori istinti, nella convinzione che difficilmente sarebbero stati giudicati o puniti. Un finestrino rotto in un’automobile abbandonata trasmette un senso di disinteresse e assenza di regole ed ogni attacco subito dall’automobile ribadì quell’idea. Insomma, anche successivi esperimenti dimostrarono che dopo aver rotto il vetro di una finestra di un edificio, naturalmente non riparato in tempi brevi, presto verranno rotti tutti anche gli altri; così, in parallelo, se una comunità presenta segni di deterioramento e questo sembra non interessare a nessuno, presto si svilupperà un incremento della criminalità, a cominciare da quella di tipo vandalico. L’ipotesi formulata dalla “teoria delle finestre rotte” aiuta a comprendere la degradazione della società e quali danni provoca la mancanza di rispetto per i valori della convivenza civile, aggravati dalla carenza di istruzione e di formazione della cultura sociale, generano un paese con “finestre rotte”.

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Quella “delle finestre rotte” è una teoria sociologica e psicologica celebrata dai media, forse perché promette una soluzione pronta all’uso per un problema complesso, ma non appare ben ancorata alla realtà, per quanto sia del tutto evidente che trascurando l’ambiente urbano si trasmettono inopportuni segnali di deterioramento, di disinteresse e di noncuranza, generando fenomeni di emulazione, dando così inizio a una spirale di degrado urbano e sociale. Il contrario può esser individuato nel concetto del “dare il buon esempio” ovvero le persone tendono ad adeguarsi, avvicinarsi, preferire situazioni, persone o luoghi a loro stessi affini, dimostrando senso di responsabilità e prendendosi cura del contesto in cui abitano; insomma, comportamenti virtuosi…

Qualche anno dopo, Zimbardo si produsse in un altro esperimento che considerava la possibilità di condizionare il comportamento delle persone manipolando il contesto sociale: si tratta del noto “esperimento carcerario di Stanford” (oggetto anche di innumerevoli trasposizioni teatrali e cinematografiche, come pure di accesi dibattiti), in cui degli studenti vennero suddivisi in due gruppi, il primo per interpretare il ruolo di detenuti e l’altro quello delle guardie carcerarie, ma in questo caso la sperimentazione venne sospesa a causa dell’incremento esponenziale di violenze fisiche e psicologiche che si stavano verificando.