Cesare Pavese tra le Langhe e i Mari del Sud.

E va bene, oggi vi parlo di una cosa che non legge nessuno, la Poesia, per di più di un poemetto, “I Mari del Sud”, scritto quasi cent’anni fa (era più o meno il 1930), di un grande scrittore morto nel 1950, Cesare Pavese…figuriamoci a chi può, oggi, interessare tutto questo?…Ma il poemetto di cui vi parlo, e vi invito a rileggere, visto che si trova agevolmente online, fa parte profondamente del nostro vissuto, del nostro passato, di un mondo contadino che oggi che certamente non esiste più, ma è altrettanto certamente un territorio dell’anima dei nostri nonni, dei nostri genitori…e quindi un po’ anche nostro.

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Io, ad esempio, che sono nato trent’anni dopo l’epoca in cui il poemetto è stato scritto, ma che sono rimasto letteralmente folgorato fin dalla prima volta che l’ho letto (avrò avuto 16 anni). E allora lasciate che vi racconti una mia piccola disavventura scolastica personale, legata a questo poemetto. Facevo, credo, la IV superiore, e l’insegnante di Lettere ci diede un titolo di un tema legato al viaggio (onestamente non lo ricordo con precisione) …ma ricordo che io ero talmente “preso” dal poemetto di Pavese che praticamente lo citai a proposito e probabilmente anche a sproposito, rubandone letteralmente stile e parole…feci un tema lungo e pieno di poesia…almeno così ero convinto. L’insegnante qualche giorno dopo riportò in classe i temi corretti…aveva l’abitudine di chiamarci alla cattedra uno per uno, esternare il voto di ciascuno ad alta voce e poi commentare brevemente come il tema era stato svolto. Di solito in ordine alfabetico. Ma quando venne il mio turno, mi saltò (e io: strano, mumble mumble). Mi chiamò per ultimo. “Il tuo tema mi ha messo in crisi”, disse, più o meno…”E’ molto particolare, certo, e originale, ma…ma ho l’impressione che tu sia andato parecchio fuori tema…non so se darti 10 oppure 3!”…pausa di suspence, poi un ineffabile sorriso, e in un sussurro: “Vabbè, facciamo 3!”, ma sorrideva…e scrisse in rosso un bel 3…Sob! Ma ho continuato lo stesso ad amare Pavese e il suo poemetto!

E ora, dopo questa parentesi semiseria, ma verissima, parliamo di questo testo meraviglioso e cruciale nell’Opera di Pavese. Perché, a pensarci bene, tutta l’opera intellettuale di Cesare ha due puntelli, uno all’inizio e l’altro alla fine, come un serpente che si avvolge su sé stesso. Alla fine c’è la storia di un ritorno: “La luna e i falò” …all’inizio, siamo nel 1930, c’è quella sorta di poemetto che è “I Mari del Sud” …che è appunto la storia di un ritorno…nella terra di Langa per entrambi. E allora come non iniziare qualsiasi riflessione sull’opera di Pavese (che se avrete la bontà di seguirmi, proseguirà con altri articoli a lui dedicati) se non da quell’origine? da “I Mari del Sud”, prima, straordinaria poesia (o poemetto) che apre la prima raccolta poetica di Pavese “Lavorare stanca”. Sono passati più o meno novant’anni da quando Pavese la compose (la prima edizione della raccolta “Lavorare stanca” uscì nel 1936 per i tipi di Solaria, poi venne ripubblicata nel 1943, per Einaudi, con alcune aggiunte e alcune estromissioni, ma “I Mari del Sud” risale a qualche anno prima), e ora siamo in un altro mondo!

Quel mondo contadino, del Piemonte di Santo Stefano Belbo, ma che era comune non solo a questa nostra zona del Piemonte, ma anche a buona parte dell’Italia di allora, che Pavese ci descrive, ora non esiste più! Volete un esempio? Nel testo il protagonista del poemetto, colui che è tornato, ha fatto un po’ di soldi. Ma non va da nessun’altra parte: la terra di Langa è il luogo della sua anima…e allora per investire i suoi soldi, fa questo:

 

“Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno

nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento

con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina

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e sul ponte ben grossa alla curva una targa-réclame.

Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi.”

 

Non sembra di essere in un film neorealistico, di Rossellini o De Sica? Tenete presente che all’epoca chi dominava la poesia era la lirica ricercata e barocca di D’Annunzio, con a fare da contraltare l’intimità ermetica del primo Montale…e qui siamo invece di fronte ad una concretezza straordinaria! E si prosegue un po’ nello stesso modo, perché l’investimento va male, e poco più avanti nel testo ne scopriamo il perché, noi lettori, perché il protagonista si confida al ragazzo che lo accompagna nel suo peregrinare fra le colline:

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“Spiegò poi a me,

quando fallì il disegno, che il suo piano

era stato di togliere tutte le bestie alla valle

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e obbligare la gente a comprargli i motori.

“Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte,

sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere

che qui buoi e persone son tutta una razza”.”

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Ecco: questo passaggio ci mette di fronte proprio all’immensa distanza fra quel mondo contadino e il nostro mondo postmoderno! Perché in questo nostro tempo (ma già da decenni), com’è palese a tutti, è invece proprio la razza dei buoi (a parte quelli allevati per la loro carne, vedi sagra del Bue Grasso) che è totalmente scomparsa dal lavoro dei campi, dove tutto si è meccanizzato.

Ma parliamo del poeta. Da dove vengono le idee, da cosa è influenzato Pavese? I suoi Maestri sono due, uno molto vicino e uno lontanissimo: il primo è il suo insegnante, che ha insegnato ad una straordinaria generazione di intellettuali il senso della letteratura e quello della libertà: Augusto Monti, del quale Pavese aveva divorato l’immenso romanzo (800 pagine!) “I Sanssôssí” (magari riparleremo di Monti e del suo romanzo) e l’altro è il poeta – vagabondo dell’America così amata e tradotta da Pavese: Walt Withman, il poeta di “O Capitano! mio Capitano!”…

Torniamo ai “Mari del Sud”. Che ha questo incipit davvero straordinario, indimenticabile, qualcosa che sta fra il mito, il sogno e la concretezza delle colline:

 

“Camminiamo una sera sul fianco di un colle,

in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo

mio cugino è un gigante vestito di bianco,

che si muove pacato, abbronzato nel volto,

taciturno. Tacere è la nostra virtù.”

 

Così inizia un dialogo dove un po’ viene detto, molto si tace, un po’ è ricordo di infanzia della voce narrante, un po’ è il narrare dell’uomo “vestito di bianco”:

 

“Tutto questo mi ha detto e non parla italiano,

ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre

di questo stesso colle, è scabro tanto

che vent’anni di idiomi e di oceani diversi

non gliel’hanno scalfito.”.

 

Anche qui, lasciatemi dire di una mia esperienza personale, che credo sia comune a tutti quelli che hanno a che fare con le persone delle generazioni passate: riguarda mio padre, che, nato nel 1927, bene ha conosciuto quel mondo contadino, ne ha fatto parte…lui spesso quando parla in italiano incespica, non ricorda le parole…ma se parla in dialetto non incespica, perché lui pensa in dialetto, e quando parla italiano, traduce dal dialetto…ma si sa, la traduzione a volte è sfuggente…

 

Concludo con un’altra citazione dal poemetto, quello che riguarda:

 

“Solo un sogno

gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta,

da fuochista su un legno olandese da pesca, il Cetaceo,

e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole,

ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue

e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia.”

 

Non vi ricorda qualche altra straordinaria creatura letteraria, o un film? Moby Dick? E volete sapere chi ha tradotto per la prima volta in Italia l’immenso romanzo di Melville, i quei lontani anni ’30? Cesare Pavese…