L’importanza dei ricordi

Tra le terre dell’acquese, all’approssimarsi delle prime alture, vi è un piccolo capannello di case e qua e là, sparsa nella campagna, qualche cascina.
Un paese senza importanza, Caranzano, forse nemmeno un paese, ma una base a cui fare ritorno dopo il lavoro nei campi.
L’unico indizio della sua esistenza è un cartello che indica una strada che leggermente sale tra i vigneti immersi in un paesaggio bellissimo, a cui si aggiungono i miei ricordi d’infanzia.
Nella campagna distesa e assolata che quella domenica d’inverno stranamente offriva, tornai con il mio cane e, con il pretesto di una passeggiata, potei rinverdire ciò che la memoria aveva con il tempo dimenticato.
La cascina della zia Pina, dove avevo trascorso gran parte delle domeniche della mia gioventù, giaceva solitaria tra i filari, sterili per l’inverno in corso, che si protendevano come ombre nere verso il cielo azzurro e limpido.
Nubi non v’erano, solo la scia di qualche aereo strappava quell’uniforme e candido azzurro.
Il cane scodinzolava, felice di trascorrere il pomeriggio tra le colline, speranzoso di fiutare tra gli arbusti la tana di qualche animaletto selvatico. Le finestre della cascina erano chiuse e trasmettevano un senso di abbandono.
Sebbene l’avessero dipinta da poco, la casa non sembrava abitata e nell’aia non c’erano animali a far presumere la presenza dell’uomo. Le girai intorno e subito fui sopraffatta da quel senso di familiarità che ancora trasmetteva, come se quel luogo avesse atteso da sempre il mio ritorno.
Era come un piccolo cosmo, in mezzo ai campi coltivati, intorno cui gravitava il ricordo di quelle esistenze che più non sono, alle quali mi univa un legame di sangue .
Una dimora mesta e semplice che aveva sfamato e protetto gli sfollati della guerra, quando, lasciate le città, si partiva con le poche cose chiuse nei fagotti e si scappava lontano dalle bombe.
La cascina aveva riunito e unito sotto lo stesso tetto intere famiglie, compresa quella dei miei nonni e, come una madre comprensiva, aveva accolto e intensificato affetti e dissipato odi che insorgevano dall’inevitabile e stretta convivenza dettata dai tempi. Aveva altresì consolato disperazioni e disgrazie che quegli anni funesti riservavano a tutti senza distinzione.
In lontananza il latrare dei cani mi rammentò quelli che un tempo abitavano nella cascina. Erano cani bastardi sempre legati alla catena. Una catena lunga qualche metro su cui correva la loro libertà. Un’illusione che si interrompeva all’improvviso con il laccio che si stringeva alla gola richiamandoli all’ordine.
Ora, è davvero un piacere camminare quassù in questa tiepida giornata d’inverno, che, per assurdo, mi fa venire in mente l’estate e i ricordi che non tacciono mai.
Dietro alla cascina, verso l’aperta campagna indistinta, v’erano allora diverse piante di ciliegio su cui mi arrampicavo per raccogliere i frutti. Non le mangiavo ma mi piaceva immaginare fossero gioielli, quei frutti sferici e lucenti. Giocavo con loro agghindandomi orecchie e collo in un carnevalesco gusto esotico.
Volendo, ora potrei anche tornare sui miei passi verso casa, ma il tramonto mi trattiene. Irrompe dietro alla colline una luce infuocata che oscura i contorni dove solo la sagoma di qualche campanile  si eleva profilandosi.
Laggiù verso la pianura, le luci tremolanti della sera si accendono come le prime stelle. Poso lo sguardo ancora sulla cascina. E’ avvolta in un cielo violaceo che sfuma nel cangiante. Da quella finestra, ora spenta e in cui nessuno fa più rumore, c’era la cucina in cui la mia famiglia desinava con un pasto a base di polenta preparata dalla zia sulla stufa scoppiettante.
Impregnava di profumi di bosco, di terra arata e di muschio tutto l’ambiente. Come dessert c’era sempre lo zabaione, l’unico dolce che sapeva fare quella gracile e rinsecchita anima di zia Pina, con le uova raccolte ancora calde dal nido. Cuoceva quel prelibato dessert in un pentolino annerito dalla fuliggine a cui aggiungeva il marsala in gran quantità. Era una crema bruna e soda in cui il cucchiaio stava piantato come un palo nel terreno.
A questo ripensavo contemplando la cascina in lontananza, all’inarrestabile fluire dei ricordi. Ma ora è tempo di andare, di riprendere la strada di casa, la notte è ormai prossima. La cascina è quasi sparita dalla mia vista. Il lungo mantello della notte l’ha avvolta dentro di sé. E’ da qualche parte laggiù, immateriale come lo sono i ricordi.

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