Un archeologo racconta lo sport nell’antichità: il Dr. Ferdinando Caputi il 27/4/23 alla sala multimediale del Museo della Gambarina

Interessante quanto originale appuntamento il prossimo 27/4 nella sala multimediale del Museo della Gambarina ore 21.30. Il Df Ferdinando Caputi, noto archeologo, tratterà il tema: “Lo sport nell’antichità”.
Abbiamo chiesto all’oratore una presentazione della conferenza. Ne è nato un intervento che, da solo, stimola l’interesse di noi amanti dello sport.

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“Tracce di sport si ritrovano in molte civiltà, ma è solo nell’antica Grecia che esso assume un ruolo notevolmente rilevante nella società e nella cultura. L’importanza delle manifestazioni sportive è testimoniata dal fatto che i greci costituirono la loro cronologia prendendo come inizio l’anno della prima Olimpiade (776 a.C.) e organizzarono le Olimpiadi per più di mille anni. Durante questi eventi venivano sospese addirittura le guerre in corso così che anche i militari, spesso i più validi tra gli atleti, vi potessero prender parte. Le gesta sportive erano celebrate anche dai migliori scultori dell’epoca, basti pensare a Mirone e al suo celeberrimo Discobolo. Lo sport ebbe in tutta la Grecia antica un valore contemporaneamente sociale, rituale e politico di assoluta rilevanza, pur nelle differenze tra le varie πόλεις (ad Atene per esempio esso era in prevalenza compendio di pratiche religiose, mentre a Sparta era usato come vero e proprio mezzo per la preparazione militare).

Allo sport va inoltre riconosciuto il grandissimo merito di aver dato vita ad una produzione poetica su commissione di alto livello, come quella dei noti Simonide, Pindaro e Bacchilide.

Lo sport era, come la guerra, l’attività per eccellenza degli aristocratici e dei liberi cittadini i quali profondevano il massimo impegno negli agoni, non per il premio attribuito ai vincitori (spesso una semplice corona d’ulivo), ma per l’onore e la gloria che a loro spettavano: le gesta che li avevano condotti al trionfo erano celebrate dai migliori poeti, il loro nome era esaltato e decantato come onore della città intera. Essere i primi significava anche, nella società greca, essere consacrati davanti alla collettività, mentre essere secondi era avvertito come un non essersi mostrati all’altezza e quindi degni solo del pubblico disprezzo. Nella “cultura della vergogna” greca*, che annetteva un’importanza vitale al giudizio pubblico, primeggiare in una manifestazione di carattere sociale come quella sportiva voleva dire molto più che un semplice successo, voleva dire soprattutto essere celebrati come i migliori. Proprio per questo nell’ambito della cultura sportiva greca sarebbe errato parlare di spirito sportivo. Il motto “l’importante è partecipare” non è assolutamente associabile al modo di pensare proprio agli atleti greci, protesi sempre alla ricerca di una vittoria a tutti i costi per se stessi e per la propria πόλις.

I vincitori di gare come la corsa, le competizioni a cavallo o sulla quadriga , il pentathlon, la lotta, il pugilato ed il pancrazio erano celebrati con particolari componimenti detti epinici. Poesia lirica su commissione, cantati solitamente in private feste aristocratiche, essi erano composti nella sostanza da tre elementi: il mito, abilmente scelto per adattarsi alla lode del committente, la circostanza occasionale della vittoria nella quale è inserita una lode al vincitore e sovente alla sua πόλις di appartenenza e, infine, la massima morale che serviva ad assolutizzare gli eventi celebrati.

I più importanti autori di epinici celebrativi furono i professionisti della parola Bacchilide, Simonide e, soprattutto, Pindaro, che divise i suoi componimenti utilizzando i nomi dei quattro grandi giochi panellenici: Olimpici, Pitici, Nemei ed Istmici.

Emblematica in questo senso è l’Olimpica I di Pindaro, il suo capolavoro, composta per celebrare Ierone, vincitore nel corsiero nei giochi olimpici del 476 a.C.

L’ode comincia, come da tradizione, con il mito, e, in particolare, con quello di Pelope, adottato nella sua versione più leggera. Pindaro narra la storia della sua corsa sui cavalli alati regalatigli da Posidone, il dio di cui era il protetto, grazie alla quale riesce a battere Enomao, a sposare Ippodamia e a cancellare con il coraggio il disonore ricaduto sulla sua famiglia a causa del padre Tantalo che aveva offeso gli dei. Quella corsa mitica si salda con quella di Ierone, nel momento del suo trionfo e allo stesso Ierone, infine, il poeta augura di potersi innalzare in alto. L’orizzonte poetico è di straordinaria grandezza.L’ode, scritta in metri lirici, recita nell’antistrofe IV e nell’epodo IV:

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“Provvido ai tuoi pensieri vigila

il dio che t’è prossimo,

o Ierone. Né mai desista: perché

io miro a cantarti trovando

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ancora più dolce col carro

veloce una via alleata di parole

giunto alla luce del Kronion

(…)

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Possa tu d’ora innanzi incedere in altoπατεῖν,

e io così ai vincitori

accostarmi insigne per maestria

tra i Greci ovunque.”

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A Roma i giochi e le pratiche sportive si ridussero a nulla più che cruente pratiche sanguinarie nelle arene, atte a soddisfare i bisogni e gli istinti più bassi della gente: spettacoli agghiaccianti che, per saziare il bisogno di violenza del popolo, terminavano quasi sempre con la morte dell’atleta il quale, anche una volta sopravvissuto allo scontro con un altro gladiatore o con una belva feroce, era comunque alla mercé dell’imperatore, o del signore locale, che raramente gli faceva il dono della vita.

L’espressione “panem et circenses”, coniata da Giovenale, risulta del tutto emblematica per riassumere ciò che il cittadino romano, specie quello appartenente alle classi sociali più basse, desiderava avere: il cibo e uno spettacolo da circo cruento come valvola di sfogo per la sua dura vita. Così gli imperatori trovavano nei giochi un facile rimedio contro il malessere sociale e se ne servivano per assopire gli istinti di rivolte contro il potere del principato. Anche qui è comunque riscontrabile una certa forma di politicizzazione dello sport: l’epilogo degli spettacoli nelle arene era sempre quello rassicurante del trionfo della civiltà romana sui barbari, rappresentati dai gladiatori, sterminati per il compiacimento degli spettatori e dell’imperatore.

A questo si era ridotto lo sport, o almeno ciò che ne rimaneva.

Con la fine delle Olimpiadi greche ad opera di Teodosio, che nel 393 d.C. bollò lo sport come “pagano”, in sintonia con i dettami della nuova religione di Stato romana, ovvero il cristianesimo, gli agoni sportivi conobbero secoli di oblio.”