Giovanni Meazzo, il ciclista cortese.
Giovanni Meazzo, ex dilettante, ex ciclista professionista, ex costruttore ed ex meccanico di biciclette. Ex perché, ora si gode la meritata pensione. Classe 1928, ha addirittura una pagina su wikipedia, ma questo probabilmente lui non lo sa e, forse nemmeno interessa.
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Mi accoglie, aprendomi con cortesia estrema, le porte della sua officina museo.
Una folgorazione per me che da sempre sono appassionato di ciclismo e di bici in generale. Non mi par vero di essere lì, circondato da centinaia di bici (c’è pure un velocipede) a respirare quell’odore, un misto di olio lubrificante e di copertoni, un profumo che sa di una volta, di antico, quasi inebriante per il sottoscritto.
Ci sono biciclette di ogni tipo, di ogni anno, di ogni marca, non solamente quelle costruite interamente da lui, ma ogni due ruote presente nella sua officina/museo è stata interamente restaurata dal signor Meazzo e di questo ne va fiero, molto fiero.
Come dargli torto.
Non so più dove guardare. Ovunque mi giri, il mio sguardo si posa su un pezzo interessante.
Vengo attirato da una bici nera, bellissima, cerchi e parafanghi in legno, la luce anteriore a “candela” (nel senso che dentro la lanterna c’è proprio una candela).
“E’ dei primi del novecento, americana, trasmissione a cardano”, mi dice il signor Giovanni vedendomi attento e interessato al pezzo, veramente unico.
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Mi giro. Eccone un’altra. Color verde scuro, cerchi in legno.
“Bici da pista BSA, datata attorno al 1920. Corona anteriore molto grande. 62 denti” mi spiega: “e la catena era diversa dalle biciclette tradizionali da corsa, perché doveva adattarsi ai denti più larghi della corona anteriore.”
Mi ero preparato una sorta di scaletta, una breve lista di domande da porre al signor Giovanni, ma non sono riuscito, mi sono lasciato prendere dalla vera e propria storia della bicicletta che aleggia nell’officina.
Ci provo lo stesso.
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“Signor Meazzo, quando cominciò a correre, a gareggiare?”
“Era il 1935/36, avevo 7/8 anni, allora c’erano i giovani fascisti e io bambino correvo su e giù dall’officina di mio padre (anche lui ciclista n.d.r.) in via Marengo, fino davanti alla stazione o al cavalcavia. Poi passai da allievo al G.C. Alessandrino, fino a che da dilettante vinsi con la maglia della nazionale il giro del Vorarlberg, in Austria nel 1949. L’anno successivo fui professionista nella Ganna. Corsi il Giro d’ Italia, caddi rovinosamente in discesa, picchiai il ginocchio destro. Fui costretto al ritiro e ancora oggi quel ginocchio non è mai più andato a posto. Anche ora quando scendo le scale.”
“Era amico di Coppi?”
“Certo, amico ed avversario. Ho diverse foto con lui. Un campione.”
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“Era più gregario o capitano?”
“Mah, Ganna mi lasciava molto libero. Ci teneva a me.”
“Veniamo più ai giorni d’oggi. Cosa pensa delle bici elettriche, o meglio, quelle con la pedalata assistita che stanno prendendo piede sul mercato anche grazie agli incentivi statali sulla mobilità sostenibile?”
“Io penso che la bicicletta dovrebbe rimanere quella che è, altrimenti diventa poi una motociclettina. La bici è fatica, è sudore.”
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Guardando una bici da corsa degli anni ’40, con solo tre cambi, non come adesso che si hanno più di 20 rapporti da scegliere, una domanda, non preparata, mi sorge spontanea…
“Ma come facevate allora con quei telai pesanti, senza cambi, con le strade a volte nemmeno asfaltate, a superare le salite, gli Appennini, le Alpi?”
Sorride…
Mi guarda senza rispondere e si tocca le gambe.
Certo Signor Meazzo.
Ho capito!
Ci andavano i muscoli, ci voleva la gamba!
Grazie, signor Giovanni per il bel pomeriggio passato. Io oggi mi sono sentito come un bimbo al parco giochi. Grazie anche a nome della redazione di Alessandria24.com.
Maurizio Mazzino