Alla Gambarina, con Ferdinando Caputi, alla ricerca delle origini dell’umanità: Lucy e dintorni.
Sono arrivato, lunedì sera, al Museo della Gambarina carico di una enorme aspettativa: conoscere Donald Johanson, uno degli scopritori di Lucy. La locandina che pubblicizzava l’evento così prometteva. Avevo letto tanti anni fa, con grande ammirazione e altrettanto interesse, il libro che lui e Edey avevano scritto in merito. L’incredibile età di Lucy (più di 3 milioni di anni), che faceva parte di un ceppo antropologico che l’avvicinava molto di più a noi sapiens che allo scimpanzé, era qualcosa che faceva girare la testa, almeno agli appassionati delle origini dell’umanità e della preistoria, come sono sempre stato. Ma Donald Johanson non c’era. Non capivo, perchè non avevo letto il post – su fb – di Ferdinando Caputi del mattino: Ieri sera a cena a Milano con Donald…stasera vi porterò i suoi saluti ed il suo ringraziamento perché stamattina ripartirà per Los Angeles dietro mio consiglio. Sapete perché? mi ha chiesto di vedere gli articoli dei giornali locali che parlavano dell’evento e quali testate e televisioni sarebbero state presenti per il suo intervento in Alessandria… la mia risposta è stata negativa perché nessuno dei media mi ha contattato per intervenire all’incontro con il più grande paleoantropologo del mondo. Queste cose mi ha detto direttamente Ferdinando Caputi, forse perchè ha visto la mia delusione assai evidente. Mah? Io c’ero. Il mio sarà anche un minuscolo giornale, ma sicuramente le domande che avrei potuto fare, con gioia, ad un incredibile antropologo come Donald Johanson, sarebbero state molte e molto curiose, e le avrei di certo pubblicate. Tanto più che Ferdinando Caputi, che con Johanson ha discusso un Tesi di Laurea, lo ha descritto come un uomo simpatico, Che parla uno slang terribile, di cui capisco poco, anche se conosco bene l’inglese…ma lui ha imparato a parlare lentamente, quando è con me, così lo capisco a sufficienza! Allora, forse, lo avrei capito pure io. Peccato.
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Ciò detto, vi posso assicurare che la conferenza di Ferdinando Caputi non è stata affatto noiosa, anzi. Abbiamo ripercorso con lui la meraviglia di quella grande scoperta e anche dell’evoluzione umana. anche se, certo, nello spazio tiranno di un’oretta di tempo. Così siamo tornati al 23 settembre del 1974, quando Donald Johanson e il suo allievo Tom Gray trovarono, in Etiopia, vicino al villaggio di Hadar, le ossa fossilizzate dell’australopiteco a cui diedero poi il nome di Lucy. A dire il vero il nome tecnico del reperto sarebbe A.L. 288-1, ma Lucy è decisamente più bello, no? Che poi il nome Lucy non fu scelto a caso: mentre erano nel campo a festeggiare con altri studiosi e scienziati, i due ascoltavano la bellissima e famosissima canzone dei Beatles Lucy in the Sky with Diamonds (che è stata a suo tempo al centro di controversia, perchè l’acronimo del brano sarebbe LSD, la famosa sostanza allucinogena che negli anni 70 spopolava in America e non solo). Ciò che ha davvero dell’incredibile, è che fu ritrovato circa il 40% dell’intero scheletro, e anche ben conservato. Nella foto sotto, però, potete vedere una bella ricostruzione del probabile aspetto della Lucy di 3 Milioni di anni fa. Nel 1978 il fossile fu attribuito alla specie Australopithecus afarensis, vissuta durante un lasso di tempo compreso tra i 3,8 e 2,9 milioni di anni fa.
Beh si, ci sono voluti anni di studio per capire bene con cosa si aveva davvero a che fare, e le scoperte sono tate notevolissime: Lucy, quindi, visse in Africa intorno a 3,2 milioni di anni fa, era sicuramente di sesso femminile e camminava in posizione eretta, con gambe più lunghe rispetto alle braccia. Quindi è del tutto legittimo affermare che si tratta davvero una nostra antenata, anche se per sfuggire ai predatori era davvero molto abile ad arrampicarsi sugli alberi. Era alta poco più di un metro e pesava circa 30 chilogrammi, aveva un cranio piccolo, e un cervello delle dimensioni di un melograno, con un bacino molto simile all’uomo oggi. Visto che il suo ventre era piuttosto gonfio, si è potuto dedurre che si cibava di grandi quantità di vegetali. Certamente mangiava soprattutto le parti tenere delle piante, quindi masticava spesso e a lungo. Per questo aveva una muscolatura molto pronunciata della mandibola, rispetto a noi. Secondo un’analisi ancora più accurata della sua dentatura hanno potuto confermare che era un ominide di circa diciotto anni quando morì, quindi già adulto secondo i ricercatori, in quanto l’aspettativa di vita degli Australopitechi era di circa venticinque anni. Ho trovato molto interessante il confronto, nelle diapositive che scorrevano, fra qualche battuta sarcastica sulla Bibbia, che Ferdinando non fa mai mancare nelle sue esposizioni, e qualche altra assai auto-ironica (cosa che mi è sempre piaciuta, in quel suo modo di fare digressioni più o meno lunghe), fra gli scheletri di Lucy e quello dei sui successori, sino a noi. Si vede benissimo quanto fosse piccina.
Tra le tante curiosità, abbiamo saputo che la causa della morte di Lucy non è ben chiara ancora oggi. La risposta più probabile degli antropologi, è che si sia trattato di una morte causata da stenti, anche se non si è mai esclusa l’ipotesi di una ferita, presente sul suo bacino, probabilmente il morso di un animale. Del resto non dimentichiamo che in quel periodo della vicenda umana i nostri progenitori erano raccoglitori e vegetariani: non conoscevano ancora l’uso delle armi, ed erano dei predati e non dei predatori. Ferdinando Caputi ci ha ricordato, a proposito delle armi, quella magistrale scena dal film 2001 A Space Odissey di Stanley Kubrik, dove un uomo-scimmia (al tempo del film – 1968 – la scoperta di Lucy era da venire), nel suo primo barlume di intelligenza, usa un osso di tapiro per…uccidere un suo simile. Poi lo getta verso il cielo e nel suo vorticare, lentamente si trasforma in una astronave terra-Luna, con un magistrale colpo di scena, che forse ci vuole ricordare che siamo ancora come quell’uomo scimmia assassino. Tra le altre, mi è anche piaciuta molto la foto che ritrae lo scopritore e la scoperta, in una ricostruzione che si presume assai attendibile. Davvero un ponte di umanità fra due universi lontanissimi, dalla non fuggevole tenerezza.
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Oggi copie dello scheletro di Lucy sono in molte università, in tutto il mondo, mentre l’originale è invece custodito in un’area protetta non visibile al pubblico, presso il Museo Nazionale dell’Etiopia ad Addis Abeba, e anche l’esemplare esposto in quel museo. Naturalmente l’originale è invece custodito in un’area protetta non visibile al pubblico. In Etiopia, Lucy è nota anche come Dinkʼinesh, termine aramaico traducibile con sei speciale, o sei meravigliosa e, nella regione di Afar, anche come Heelomali, che ha sostanzialmente lo stesso significato. E oggi? Certo, oggi gli studi sono proseguiti, eccome. Infatti, dopo cinquant’anni di ricerca paleontologica, non si pensa più all’evoluzione come un albero dotato di un tronco principale, dal quale si diramano diverse propaggini, quanto piuttosto come a una sorta di cespuglio, in cui diverse linee evolutive si sviluppano in parallelo. Aggiungo una nota personale per sottolineare quanto Lucy sia popolare: nel 2014 Luc Besson ha girato, appunto, Lucy, un film di fantascienza distopica con Scarlett Johansson (la Lucy di oggi) e Morgan Freeman. Un film che è anche un vero e proprio omaggio alla Lucy etiopica. Proprio l’inizio del film ci fa vedere il pitecantropo Lucy che si abbevera ad un torrente…guardandosi preoccupata intorno. Poi verso la fine del film, c’è la bellissima scena delle due Lucy, l’una di oggi, l’altra di 4 milioni di anni fa, che si toccano con il dito indice, come Dio e Adamo nella Cappella Sistina, in una sorta di palingenesi dell’umanità in senso femminile: e che bello, allora, che Ferdinando Caputi ci abbia parlato, lunedì scorso, della scoperta dell’australopiteco più famoso – e certamente più simpatico – al mondo.